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«Noi attori possiamo incidere sulla società»

Il ruolo di chi recita va ben oltre l’interpretazione sul palcoscenico: lo spiega Donatella Finocchiaro

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«Sarò al parco con la bambina, mi apparto comunque un attimo e potremo parlare». Ci prova Do­na­tella Finocchiaro a far quadrare gli impegni, ma poi l’appuntamento fissato per le 17 del suo giorno libero salta. Mi avrebbe chiamato lei stessa dall’automobile mentre raggiungeva il Teatro India di Roma dov’era in scena con “Il filo di mezzogiorno”, dall’omonima autobiografia di Go­liar­da Sa­pienza (ora in tournée). Un ruolo in­tenso e difficile che dà corpo e voce a una scrittrice di rottura, sofferente e complessa. Lei, invece, si definisce so­lare, eppure è chiamata spesso a vestire i panni di donne cu­pe e depresse. Sono i suoi “viaggi al­l’Inferno” andata e ritorno: dalle stanze buie dove si nascondono madri malate di depressione (“La fuga”) o alcolizzate e indifferenti (“You­topia”) alle passeggiate al parco con Nina, la figlia di sei anni a cui racconta che oggi Ce­ne­rentola non starebbe certo ad aspettare il principe azzurro, avuta dal suo ex compagno Edoardo Morabito. Colui che per primo ha pensato a Go­liarda. Perché Goliarda è diversa. Goliarda non è cupa e de­pressa. Goliarda è Goliarda.

Parliamone. E cominciamo dallo spettacolo.
«È stato Edoardo Morabito, estimatore di Goliarda, a suggerirmi di portarlo in scena. Io l’ho sottoposto a Mario Mar­tone e a Ippolita di Majo che hanno firmato regia e adattamento. In scena con me c’è Ro­berto De Francesco, nel ruolo dello psicanalista».

Infatti si tratta di una sorta di seduta analitica, in verità un po’ bizzarra, in cui a un certo punto sembra quasi che si invertano i ruoli.

«Il libro racconta proprio il suo percorso di analisi con uno psicanalista all’epoca molto in auge, Ignazio Majore, del qua­le aveva creduto d’essere in­namorata e che proverà a illuminarla sul processo del transfert. L’aveva indirizzata a lui il suo compagno di allora, il regista Citto Maselli, per ti­rarla fuori dall’ospedale psichiatrico».

La scrittura di Goliarda è interiore, complessa da rendere per la scena. E prevede i due livelli distinti del pensiero e del parlato.

«L’incontro con il personaggio è stato prima di tutto incontro con la sua scrittura e questo adattamento è preciso, ogni snodo è inserito al posto giusto, non c’è una parola di troppo. Il ritmo interiore di Go­liarda, sospeso tra inconscio e realtà, è reso perfettamente».

Che suggerimenti le ha dato Martone?

«Non fare mai la pazza. La sua è stata una regia dalla quale mi sono sentita protetta. Tendeva ad asciugare, a non eccedere».

Quanto c’è di Goliarda in Donatella?
«Quando ho letto “L’arte della gioia” ho subito pensato che sono Modesta da sempre. La protagonista di questo romanzo è un tipo di donna a cui sento di appartenere: libera, spregiudicata, controcorrente».

Così controcorrente che “L’arte della gioia” è stato pubblicato postumo…

«Dieci anni dopo la morte. Solo dopo l’accoglienza in Francia e Germania l’ha pubblicato Ei­nau­di. Erano gli anni Settanta e una donna come lei faticava moltissimo, era troppo avanti: lei, le sue idee e anche la sua scrittura. Anche oggi risulta scomoda. In Francia è adorata, in Italia… “nemo propheta in patria”. Eppure in quel romanzo si racconta tutto il Nove­cento, la guerra, la fame. Ora è tradotto in quindici lingue».

Parlando delle sue poesie Go­liarda dice allo psicanalista “anche se sono solo un esercizio le serviranno per conoscermi più dei miei sogni”.

«Infatti la sua scrittura è testimonianza dei suoi stati d’animo, delle sue contraddizioni, dei suoi continui sbalzi di umore».

In questo spettacolo ci sono momenti in cui pare che mu­tui il gergo tecnico dallo psicanalista e poi gli faccia il ver­so, irriverente, provocatoria, ma a modo suo rigorosa. E che sia proprio lei a trarre dalle premesse di lui le conseguenze più logiche.

«Sì, è vero. Goliarda era un vulcano. Una grande intelligenza animata da quell’ironia tutta catanese che anch’io mi sento addosso. Con quelle battute taglienti, leggere ma non cattive, un po’ come le battute di Battiato, a cui penso spesso».

Stavo per chiederle proprio di lui. Anche perché Battiato l’ha voluta nel suo primo film da regista, “Perdutoamor”, del 2003.
«Uno degli ultimi galantuomini, generoso e disponibile. Era un artista che sapeva rimanere amico con gli artisti con cui aveva lavorato. Amava la solitudine e aveva i suoi tempi ma era anche di grande compagnia, con la battuta sempre pronta».

Lei è considerata un’attrice impegnata, molto richiesta dal cinema d’autore. Si ritrova in questo profilo?

«Il cinema mi ha regalato ruoli bellissimi, a cominciare da An­gela, la protagonista del mio primo film diretto da Roberta Torre nel 2002. Una donna emotivamente fragile che però teneva in pugno il traffico di droga messo su da marito e amante. Ho spesso interpretato don­ne di grande temperamento, toste, personalità fuori dai canoni. Ma amerei anche fare la commedia».

Marco Bellocchio, con Bona di Gravina de “Il regista di matrimoni”, le ha regalato un ruolo fuori dai canoni.
«Una donna un po’ pazza, svampita. Bellocchio in quel film ha raccontato un sottobosco psicologico molto interessante. Il suo è un lavoro molto attento al sottotesto. Dietro ogni parola, silenzio, punteggiatura c’è una ricerca di senso».

Il cinema e il teatro civile possono incidere sulla so­cietà?

«Ne sono convinta. Non lo pensassi cambierei mestiere».

A proposito: lei nasce come avvocato e per un periodo ha esercitato come penalista. L’ha aiutata nel capire le ragioni dei personaggi “negativi”?
«In effetti ci sono delle affinità. Un avvocato deve per forza di­fendere l’assistito anche se è col­pevole. E lo fa cercando i ca­villi, che per gli attori si chiamano sottotesti. Ho amici avvocati che sono bravissimi attori nella vita e certa arte oratoria gli attori se la sognano».

Che effetto le ha fatto interpretare Caterina ne “Io, una giudice popolare al Maxiprocesso”?
«Un’esperienza molto forte e un punto di vista nuovo per il cinema e la tv. Caterina non rap­presentava né la mafia né la legge ma una donna di grande senso civico che si è trovata in­vestita di un’enorme responsabilità, catapultata in una situazione molto rischiosa che ti cambia la vita. Una persona mos­sa da un senso civico che ogni cittadino dovrebbe avere, anche se poi la tua vita non è più la stessa».

E Donatella come passa il suo tempo libero?
«Faccio yoga un giorno sì un giorno no, leggo e ascolto musica, soprattutto italiana. Pino Da­niele, Fabrizio De André, Carmen Consoli».

Il viaggio del cuore?
«Madrid con le mie amiche catanesi, Los Angeles con Emanuele Crialese, Lisbona. Ma ogni viaggio è un pezzo di cuore».

Un valore imprescindibile, oggi?
«L’accoglienza. Non esiste altro modo per me che quello di aprire le braccia e accogliere».
Come succede alla sua Valeria con il piccolo Mohamed in “No­nostante la nebbia”, l’ultimo film di Goran Paskaljevic, sulle piattaforme streaming.

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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