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Beppe Leardi, un vero “minüsiè” cantastorie

Il poliedrico artista-falegname di Lequio Tanaro crea oggetti capaci di raccontare emozioni

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«Si sieda, prima prendiamo un caffè, per le domande c’è tempo». Inizia così la “non-intervista” a Beppe Leardi, poliedrico artista-falegname di Lequio Tanaro e ammaliante cantastorie con cui non si può fare altro che stare ad ascoltare mentre condivide pezzi di un’esistenza in cui non si è mai risparmiato. L’inizio dell’attività con la segheria del nonno, lasciata poi al padre che «sapeva fare un po’ di tutto», spinto dall’ambizione di aprire un mobilificio in centro. Fino ad arrivare a Beppe, che non amava scrivere ma era bravo in matematica e da Lequio pedalava ogni mattina fino a Dogliani per frequentare la scuola di avviamento al lavoro. Le fatiche di quelle vite contadine mosse dal desiderio di rivincita si leggono più nei suoi silenzi che nelle parole. «Ci possiamo dare del tu? Perché la storia che sto per raccontare impone di essere un po’ in confidenza». E così “il buon Leardi”, come Beppe ama chiamare sé stesso, prende in mano due libri che, come un abile prestigiatore, sposta nell’aria e accarezza, senza permettermi di toccarli. Sfoglia il primo, sulla cui copertina si legge “Niente per caso”, aprendone le pagine che rivelano una calligrafia stampata perfetta. «Comincia tutto qui, qui c’è la storia della mia famiglia. È una vera epopea, dentro si trova tutto: dolori, lutti, immensi amori. La mia amica scrittrice Maria Tarditi, a cui la raccontai per la prima volta, se ne innamorò e la trascrisse tutta a mano. Chi legge queste trecento pagine trova qualcosa fuori dal comune». Segue un lungo silenzio. «L’editore era già pronto per metterlo sul mercato quando qualcuno della mia famiglia si oppose, confidandomi che non riteneva giusto mettere in piazza certi dettagli così personali. Io mai avrei voluto causare un dolore alle persone a me vicine e così decisi di acquistare tut­te le copie già stampate, pensando inizialmente anche di distruggerle. Poi, invece, proprio su suggerimento di chi prima si era mostrato titubante a diffondere la storia, iniziai a regalare delle copie agli amici più intimi e dopo poche settimane iniziarono ad arrivare dai lettori decine di lettere di ringraziamento per po­sta…” Da un cassetto estrae un plico straripante di fogli scritti in grafie ricciute che hanno la pulizia di chi usa spesso la penna. Beppe pesca nel mazzo e me ne allunga un paio, con la certezza di chi conosce le pecore nel suo gregge. «Vedi? L’entusiasmo era così tanto che decidemmo di prendere un’altra strada…». Beppe accarezza la copertina dell’altro libro, patinato, dove, sotto il ritratto di un uomo, si legge il nome dell’autrice, Maria Tarditi.
La tua storia è finita lì dentro?
«Sì, ci siamo accordati per cambiare i nomi e i dettagli in modo da rendere le vicende non riconducibili a noi. A quel punto però in famiglia eravamo tutti d’accordo: le vicissitudini della straordinaria esistenza di mio nonno dovevano essere raccontate. I lettori stessi ne avevano confermato la forza e mi ringraziavano per aver fatto riaffiorare in loro intense memorie d’infanzia».
Il suo passato non è stato semplice. Il suo presente, com’è?
«Sono molto occupato e questo mi fa bene, ho da poco festeggiato gli ottant’anni e non smetto di avere progetti. Le mie storie non mi abbandonano mai. Maria Tarditi mi diceva sempre “Devi scrivere, altrimenti queste vicende si perdono. Io non posso più aiutarti ma tu continua”. “Mi son nen bon” le rispondevo. Non ho studiato tanto e non ero sicuro di essere in grado ma ho iniziato, soprattutto la sera, a buttare giù qualche ricordo. Ora vedo il mio no­me qua e là sugli articoli di diverse riviste locali e un po’ mi vergogno, sono già anziano… Però se me lo chiedono, come si fa a dire di no?»
C’è qualcos’altro a cui non sai dire di no?
«Ad un buon dialogo. Io non sono tecnologico, preferisco parlare con le persone, invitarle a prendere un caffè. Anche i clienti del mobilificio mi piace farli sedere qua, prima di parlare di lavoro. Un tempo ero sempre indaffarato e mi spiaceva quasi che arrivasse qualcuno a interrompermi. Ora il regalo più bello è che vengano a trovarmi».
Immagino ti contattino anche per commissionare le tue se­die giganti o le panchine degli ex innamorati in cui le sedute sono rivolte in direzioni opposte. Come è nata l’idea?
«Sono un “minüsiè” e da sempre a casa mia si lavora il legno con passione. Conservo ancora una pipa intagliata con un coltellino da mio nonno durante la prigionia in Au­stria: la regalò a mio padre il giorno di Natale, lui sì che era un artista. Io desideravo creare degli oggetti che lanciassero il messaggio che si può e si deve guardare da un’altra prospettiva la propria vita in ogni momento, anche partendo da un gesto semplice come se­dersi. Sulle sedie giganti si fa un po’ fatica a salire e così si tor­na bambini. Per impagliare quella che ho in giardino ho impiegato seicento metri di corda! Le mie panchine invece nascondono un segreto…».
Quale?
(Mi porta in giardino, dalla prima panchina degli ex-innamorati che ha creato). «Bi­sogna che ci sediamo… A­desso possiamo decidere di guardare avanti, ognuno dalla sua parte, oppure girare la testa e voilà! Siamo poco distanti. A dispetto del nome so­no panchine per chi si vuole bene, ricordano che a volte basta guardarsi ancora negli occhi per decidere di ricominciare».
Andando nel suo laboratorio Beppe mi mostra un tavolo a forma di nota musicale che farà bella mostra nella sala prove di una banda e un altro in cui i “nodi”, presunti difetti, sono invece usati come decorazione. Il tavolo più prezioso però è quello realizzato con oltre settanta legni diversi, intarsiati con maestria tra loro, realizzato dall’artista per ricordare la figlia, scomparsa prematuramente.
«Nessun altro mobile di una casa simboleggia l’unione fa­miliare come il tavolo» sostiene il falegname-artista che ha iniziato a pensare all’idea di creare le speciali panchine a doppia seduta proprio dopo questo difficile momento personale. Ora le sue opere si trovano in molti giardini privati come simbolo di unione e amore che spesso riesce a superare le distanze. La verità è che tutti cerchiamo un posto, fisico o spirituale, in cui sederci accanto alle persone amate per sentirci vicini anche se, momentaneamente, si sta guardando un diverso panorama».