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Discariche abusive, selvatici incontrollati, natura ribelle. E tra i sentieri spunta un cappio: viaggio nella Sinistra Tanaro che non va (FOTO)

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Più immagini, e più modi per capire come la misura sia quasi colma, nel Roero: per comprendere che è il caso di fermarci con la mente, se non con le gambe, impazienti di tornare a correre dopo oltre un anno di blocchi, chiusure e “congelamenti”.

E’ la natura che, forse, ce lo sta chiedendo: facendo appello al buon senso, al vivere comune. In una realtà in cui l’opinione pubblica si dibatte nell’eterno duello tra perbenismo e indignazione (alla fine, gli allibratori danno sempre il primo come vincente: la seconda, però, scalpita alle spalle), la partita parallela si gioca tra a tre: in un mènage complicatissimo in cui si mischiano il rapporto con la terra e l’ambiente, la partecipazione attiva e passiva alla quotidianità circostante, e un’incuria che spesso va a sfumare in tinte cupe, pericolose, addirittura micidiali per il prossimo.

Non importa se i rischi sono immediati, diretti o più a lunga scadenza: il territorio non è un cartone del latte. E, se proprio vogliamo forzarne il paragone, occorre che tutti ne possano bere senza che qualcuno lo faccia diventare rancido.

Prendiamo, ad esempio, ciò che sta accadendo in quota-Rocche, nei boschi che la Sinistra Tanaro vorrebbe porre come uno dei suoi biglietti da visita: per un turismo outdoor su cui si punta molto, al netto dell’emergenza sanitaria e delle restrizioni del periodo, anche facendo leva su quei visitatori “di prossimità” che potrebbero rappresentare una fetta significativa di mercato per il settore.

Vino, tartufi e sentieri? Sì, ma possibilmente senza incappare in discariche abusive che fioriscono continuamente: anche sotto gli stessi cartelli che impongono i divieti di abbandono, precisando importi delle sanzioni e rilievi penali. Si parla molto, della questione, in questi anni e mesi: talvolta, in modo se si vuole distorsivo, attribuendo questo fenomeno alla progressiva introduzione del sacchetto prepagato -e fornito in quantità fisse, oltre le quali ogni surplus viene fatto pagare in misura pari al costo per smaltirlo- tra i Comuni della zona.

Non è una scusa, non è una ragione: anche perché, chi compie questi gesti, la tassa sui rifiuti la paga comunque (si spera, ci si augura) e continua a ragionare con la logica “pago, e faccio quel che voglio”. E ci aggiunge anche un “qualcuno ci penserà, a ripulire tutto”. Purtroppo.

E’ qui che subentra la partecipazione attiva: quella dei volontari, che magari portano via un po’ del loro tempo, sacrificando quello per gli affetti e le loro famiglie, e si buttano con il corpo e con l’animo nel ripulire ciò che altri hanno sporcato. Sono persone normali, non eroi: e che, se alla fine della giornata, postano una foto sui social networks per raccontare ciò che hanno fatto, non è necessariamente per farsi dire ‘bravi’ dalla gente. Fanno bene, ci mancherebbe: il problema è che tutto ciò, da solo, rovescia la spirale dell’educazione civica.

Nel senso che, spesse volte, una volta bonificata un’area, non passano molti giorni che la stessa si riempie di nuovo di immondizia. Come a Canale, tanto per tirare in ballo una di queste immagini: come se qualche mano delinquente davvero pensasse “bravi voi, lo dico anch’io: continuate a pulire, io continuerò a sporcare”.

Bene, dunque, chi si rimbocca maniche e risvolti per andare nei boschi: a monitorare, come nel caso delle “Sentinelle del Roero”. A sgombrare rifiuti. Ma servono pure punizioni esemplari: affinché, quando la giustizia fa il suo corso e le Forze dell’Ordine riescono a individuare i colpevoli (e lo fanno: come è accaduto, ad esempio, nei giorni scorsi a Montaldo Roero) si dia davvero motivo per capire che non si poteva fare, non si può e non si potrà insozzare l’ambiente a piacimento. A costo di qualche gogna mediatica.

Cosa, quest’ultima, che spetterebbe di diritto al deficiente -non c’è altro modo per definirlo- che ha invece deciso di impiantare un cappio d’acciaio sul sentiero che dalla Cascina Barbisa di Canale porta al “Toriòn” di Vezza d’Alba. Ecco, allora, come si passa dal danno differito a quello possibile, diretto, bruciante: per un nodo scorsoio appeso ad un albero inclinato, pericoloso per chi va in bicicletta (e sono tanti) ma pure in moto, con buona pace degli ecologisti tout court. Tutti uniti nell’indignazione, ora: per un fatto che ha i contorni di una scena criminale, in cui poteva andare anche peggio ad un qualsiasi malcapitato passante. Sarebbe stato un danno d’immagine tremendo, per il Roero e l’Albese.

Chi ha teso questo cavo, se mai leggerà queste righe -c’è anche il dubbio che non ne sia in grado, e chiedo scusa per l’alterigia: l’amarezza è tutta voluta- si faccia un esame di coscienza e sappia che un gesto così stupido non può essere preso come uno scherzo. Ci poteva scappare il morto, a volerlo scrivere a chiare lettere: e se tutto è stato dettato dall’antipatia verso chi ama andare a passeggio per la campagna in sentieri pubblici, magari anche in lieve e indolore “libera uscita” dalle regole della Zona Rossa, l’autore di questo gesto faccia un favore. Ossia, applichi il proprio personale lockdown: totale, possibilmente.

Emerge persino il conflitto nel tacerle o diffonderle, notizie di questa portata, troppo gravi per sembrare un pesce d’aprile mal riuscito, malato, mal pensato: ma il fatto che accadano queste cose folli, da queste parti, è troppo grave per essere nascosto.
In ultima analisi, come un margine tracciato a centro pagina, c’è la questione dei cinghiali: troppi, incontrollati, nonostante la buona volontà di dare vita a battute di caccia selettive, al desiderio di alcuni sindaci di fare fronte comune e segnalare la questione agli organi competenti, a disegni di legge in corso, urgenti.

E’ chiaro come l’abbondanza di ungulati non sia un problema che si è generato da solo, da un giorno all’altro: e che, in qualche misura, il popolamento selvatico sia un tema da gestire all’insegna della sostenibilità. Allo stesso modo, non è solvibile in poco tempo: ma la pazienza sta finendo (è già finita per coloro che, nei mesi scorsi, hanno manifestato insofferenza per i dissuasori acustici) e c’è più di un timore che -tra chi possiede armi, regolarmente denunciate, in casa- nasca e cresca il comprensibile desiderio di farsi giustizia da sé.

Per limitare ulteriori danni all’agricoltura: per prevenire incidenti stradali in cui cinghiali e selvatici sono una variante impazzita, imprevedibile, pericolosa anch’essa. Prudenza e giudizio, dunque: in attesa che le risposte dall’alto arrivino, in fretta ed efficaci.
Tutto ciò accade qui, in un intero anno condizionato da un conflitto vitale come quello che solo un virus può generare: in un territorio in cui spesso tocca fare anche il conto tra il tocco dell’uomo e le linee del paesaggio, e talvolta basta un nubifragio per rendersene conto.

“E’ l’acqua che ha memoria”, dicevano i nostri anziani: è la natura che presenta il conto. E -si badi bene- non dice di smettere di lavorare: c’è già chi lo fa, al posto suo.
Soprattutto, è l’essere umano che deve mettere cognizione, per dirla con un’espressione tra italiano e piemontese. Forse, davvero l’ambiente cerca di dirci “ascolta”.

Paolo Destefanis