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«Arte o Instagram non fa differenza»

Il teorico del design Riccardo Falcinelli nel suo libro spiega come funzionano le immagini, dal Rinascimento ad oggi

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Che cosa hanno in comune la scena iniziale del film di “Et l’extra-terrestre” in cui arriva l’astronave e un quadro bucolico del Sei­cento? Cosa differenzia davvero una fototessera dall’autoritratto da giovane di Rem­brandt? E soprattutto, perché la maggior parte dei quadri che conosciamo sono rettangoli? A queste e altre inaspettate do­mande risponde “Figure”, il saggio del teorico del design Ric­cardo Falcinelli il cui occhio esperto si posa, smontandole, sulle immagini di capolavori, santini e poster pubblicitari per svelarne i meccanismi e mo­starcene l’anima. Con la grazia di chi possiede il dono di rendere comprensibili meccanismi complessi, Falcinelli porta per mano in una soggettiva esposizione d’arte in cui la Gioconda sta accanto alle foto fermate dai magnati sul frigo e le ballerine di Degas danzano con i post che sbancano di “like” Instagram. Bisogna imparare a guardare con consapevolezza, mette in guardia l’autore, perché «l’alternativa è non vedere niente».

Sarà perché passiamo sempre più tempo su Instagram che il suo saggio su come funzionano le immagini ha tanto successo e sta regalando bellezza a moltissimi lettori?
«In molti mi scrivono per ringraziarmi, mi mandano foto del libro e diversi professori lo stanno leggendo ai loro studenti; non posso che essere felice di sentire tanto affetto e calore intorno a “Figure”».

Alcuni meccanismi svelati non suonano del tutto nuovi. È possibile che, esposti al flusso costante di immagini diverse sui “social”, ne abbiamo assimilato il funzionamento, anche senza conoscerne i meccanismi grafici e visivi?
«Certo. Se così non fosse per gli spettatori sarebbe impossibile godersi anche un film o la copertina di una rivista. Il pubblico è allenato a decodificare soprattutto i linguaggi contemporanei, quando vede un ramo messo in primo piano, a formare quasi una quinta teatrale, capisce che serve a dare profondità alla scena e ad allontanare il soggetto, an­che psicologicamente, da noi. E più difficile che se ne renda con­to in un dipinto del Settecento».

Come ha lavorato per scrivere e scegliere le centinaia di opere contenute in “Figure”?

«Il lavoro che faccio nel testo è quello di smontare le immagini, come se fossero un orologio, davanti agli occhi di chi legge: non sto rivelando chissà quali verità segrete ma sto scomponendo i vari pezzi, in maniera analitica. L’intento è esattamente quello di suscitare questa sensazione di imparare il nome o la funzione di un concetto già noto. Recentemente mi ha scritto una storica dell’arte raccontandomi che nonostante sia nel campo da lungo tempo ora guarda i quadri con occhi diversi. Io sento questa vocazione pedagogica e didattica da sempre, per cui il fatto che il libro abbia questo riscontro, anche pratico, mi rende felice».

Scrive: “Per imparare a vedere bisogna aver voglia di giocare e divertirsi”. Lei nella vita si diverte?
«Nella parte lavorativa e di studio questo aspetto è molto presente. Nella vita sono scherzoso, rido molto e ho un buon senso dell’umorismo accanto ad altri aspetti più cupi, però non mi definirei giocoso. Io non ho mai giocato nemmeno da piccolo, mi piacevano soltanto i Lego e disegnare. Non trovavo interessanti Monopoli o na­scondino, ad esempio. Passavo molto tempo con mio fratello con cui ho avuto uno stretto rapporto di complicità fatto di invenzioni e storie. Molte degli aneddoti che si trovano nel libro provengono veramente dalla mia famiglia, molto affiatata, fatta di persone appassionate e coinvolgenti. I miei genitori fin da piccoli ci hanno portato a vedere mostre, film, musei e dopo se ne discuteva insieme. Se andavamo al cinema, ad esempio, poi si mangiava la pizza discutendo delle inquadrature, delle scene, dei dialoghi».

Il libro contiene descrizioni molto fisiche anche delle sensazioni che le diverse immagini suscitano nel lettore. Si può dire che questo saggio abbia qualcosa di erotico?
«Non so se erotico sia la parola giusta, ma il concetto è chiaro. Io sono molto appassionato di ciò che studio e insegno, e mi sono reso conto, anche dopo tanti an­ni da professore, che o­gni volta che si cerca di trasmettere una passione, automaticamente en­tra in gioco un elemento seduttivo perché parlando ti vo­glio attrarre, ti voglio portare dentro a questa cosa che amo. Per cui la seduzione c’entra per forza».

Quali tra le immagini più famose non è diventata kitsch?
«Direi le opere di Botticelli. No­nostante siano state riprodotte all’infinito mantengono ancora una consistenza, mentre Van Gogh è stato distrutto e saccheggiato».

Il libro si basa su una sostanziale assenza di giudizio: lei afferma che non è peccato dedicare più tempo a guardare un poster di Dolce e Gabbana rispetto ad un Caravaggio, ad esempio…
«Esatto. Tutto dipende dalla valutazione che stiamo facendo di quell’immagine. Ci può essere un lato soggettivo da considerare cioè quanto mi ha coinvolto, mi ha rivelato di me stesso o mi ha emozionato. Oppure ci può essere un parametro storico ovvero quanto questa opera è importante per la storia degli esseri umani. La ragione per cui io mi trattengo dall’esprimere giudizi è il lasciare questa libertà a chi legge. Questo non è un libro di storia dell’arte, è un libro di design, cioè spiega come sono progettate le figure e che attinge alla storia dell’arte».

Quale sarà il futuro delle immagini?
«Andranno sempre di più veloci. Vivremo una realtà dove videogiochi e realtà aumentata saranno sempre più presenti, ma già ora i ragazzini giocano tra loro ai videogiochi e i chirurghi operano da remoto. Ma questo non mi spaventa, starà a noi costruirci una lentezza personale».

Tre aggettivi per postare foto perfette su Instagram.
«Concise; precise, cioè devono dire una cosa soltanto e coin­volgenti, ovvero non solo io ma anche gli altri ci devono trovare qualcosa di interessante».


 

 

 

 

 

 

LE FIGURE COME ESPERIENZA SPIRITUALE
«Non essendo credente mi sono reso conto di quanta parte delle mie questioni esistenziali siano state occupate dal rapporto con le immagini, con l’arte e con il design», prosegue Riccardo Falcinelli. «Tutti abbiamo bisogno di uno spazio di preghiera o di contemplazione, soprattutto in tempi difficili come questo. Non a caso sono nate mille forme di alternative come yoga, meditazione, nuovi regimi alimentari, tutto per colmare questo vuoto. Essendo io una persona piena di dubbi, sono ateo ma non sono certo che sia così per forza. In fondo spero che la verità sia un’altra, soffro a non credere. Questi interrogativi diventano ancora più impellenti quando si ha, come me, un bambino piccolo: non è facile trovare le parole per parlare della morte, ad esempio. I bambini hanno bisogno di Gesù Bam­bino, di Babbo Natale e del Paradiso perché la loro mente deve funzionare nella sfera del magico. Da grandi poi si cercano le risposte e ognuno trova una strada. Ci sono i credenti e gli atei appagati. Poi c’è chi la strada non la trova, come me, e si arrovella. Quello che volevo trasmettere con questo saggio è che le immagini non sono qualcosa che si guarda al museo per dovere o per passare il tempo ma se ci si mette d’impegno e le si vive con passione posso rappresentare il tramite verso noi stessi o addirittura verso qualcosa di superiore».