Una “nuova” vita iniziata a 22 anni

Il saviglianese Gabriele Berteina ha ricevuto un trapianto di cuore subito dopo il “lockdown”

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In un’Italia ferma e chiusa in casa a causa della pandemia, a Savigliano un ragazzo stava vivendo giorni che ricorderà tra i più intensi della sua vita. Il 22enne Gabriele Berteina, nei giorni dell’emergenza sanitaria ha ricevuto la telefonata che gli ha cambiato la vita, riportandola a essere meno distante da quella di prima della visita medica che ha acclarato come il suo cuore avesse problemi tutt’altro che risibili.

Gabriele, come viveva la sua vita prima della visita medica?
«Conducevo una vita normalissima: avevo solo 18 anni e facevo quello che fanno tutti i diciottenni. Andavo a scuola, mi divertivo con gli amici e facevo sport; fino a quel momento avevo condotto la classica vita adolescenziale. La mia passione più grande era sicuramente la pallacanestro e lo sport in generale».

Come ha capito che qualcosa non andava?

«In realtà io non lo avevo capito: ho avuto la fortuna-sfortuna di essere asintomatico, quindi io non mi sarei mai ac­corto di nulla. Fortunata­men­te, la scoperta è stata a settembre del 2015 andando a fare la visita di idoneità sportiva, in quel momento la dottoressa ha sentito dei battiti cardiaci irregolari e mi ha mandato a fare degli e­sami di controllo e lì è stato notato che il mio muscolo cardiaco era più grande rispetto a un cuore normale. Dopo una lunga trafila di esami culminata con la diagnosi ricevuta all’ospedale di Padova di “car­diomiopatia dilatativa da distrofia muscolare di Becker”».

Qual’è stata la sua prima reazione alla notizia?
«Agli inizi non buona, ovviamente. Fino a quel momento avevo avuto quasi nessun problema di salute e quindi per me era un mondo sconosciuto. Quando sei abituato a condurre un certo stile di vita e da un giorno all’altro ti costringono a cambiarlo, vivi un momento di disorientamento. Mi è sembrato un po’ come quando da bambino giochi con i cubetti e costruisci una torre, ai tuoi occhi perfetta. A quel punto il gioco diventa tirargli un calcio e buttarla giù. Ecco: la malattia è stato quel calcio che mi ha fatto ricominciare tutta la costruzione da capo».

Chi le è stato vicino in quel periodo?
«La mia famiglia, in primis. All’epoca ero appena diciottenne, con tutte le mie mille fragilità. I miei genitori e mia sorella hanno fatto tutto il possibile per starmi vicino ogni secondo. Gli amici anche non sono mancati e nell’ultimo periodo (quello del trapianto) penso che senza la mia ragazza accanto sarei crollato più di una volta».

Quando ha saputo che avrebbe dovuto affrontare un trapianto?
«Dalla diagnosi sapevo che prima o poi sarei dovuto arrivare al trapianto. Speravo che questa cosa po­tesse accadere il più lontano possibile. Con il problema che ho avuto a febbraio è stato deciso di inserirmi in lista d’attesa».

Cosa è accaduto?
«La situazione si è aggravata per una polmonite e uno scompenso cardiaco che mi ha costretto al ricovero presso l’ospedale di Savigliano. Sono andato in shock cardiogeno e da lì sono stato trasportato d’urgenza all’ospedale le Molinette di Torino. Sono crollato anche emotivamente, penso sia normale, però come sempre mi sono fatto forza, anche con l’aiuto delle persone che mi vogliono bene. Ho un tatuaggio che recita “Non mi sono mai seduto”, così ho fatto e così continuerò a fare, davanti ad una sconfitta o una delusione non mi abbatterò e non mi siederò mai».

Com’è stato affrontare questo crollo in concomitanza con l’emergenza sanitaria?

«Nel momento in cui è scoppiata la pandemia ero a casa e ho vissuto tutto il “lockdown” lì; quando hanno iniziato a riaprire, mi hanno chiamato per il trapianto. Il brutto è stato lì, perché durante il ricovero non avrei po­tu­to ricevere visite. Per fortuna mia ma­dre è riuscita a ottenere un permesso straordinario per entrare».

Quando è arrivata la chiamata per il trapianto?
«La chiamata l’ho ricevuta alle 7,30 di sera. Stavo aspettando di cenare con la mia ragazza e ricevuta la telefonata sono dovuto correre a Torino. Sono arrivato alle 21 ed entrato in sala operatoria alle 5,30: sono state le 8 ore più lunghe della mia vita».

Com’è riuscito a ridare senso alla sua “nuova” vita?
«Un bel giorno mi sono detto che non potevo andare avanti, piangermi addosso era inutile perché non sarebbe cambiato nulla e ho iniziato a prendere il buono e a vedere il bicchiere mezzo pieno. Da quel giorno ho smesso di pensare alla malattia come una difficoltà e mi sono fatto forza per andare avanti col sorriso».