Il tema dell’incontro di domani sera (venerdì) nella biblioteca del liceo “Cocito” ad Alba è “Restituire un nome – Riflessioni sul diritto all’identità”. «È un dato sulla bocca di tutti adesso che si parla molto di migranti. Ma il mondo ci dice che la questione riguarda anche i conflitti armati – anticipa Cristina Cattaneo –. Quando iniziò la tragedia di Gaza, un anno fa, ricordo le madri che scrivevano i nomi sulle braccia dei loro bambini. Salvaguardare l’identità dei propri morti è fondamentale». L’antropologa e medica legale originaria di Casale Monferrato, fondatrice assieme a Marco Grandi, del Labanof, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano, sottolinea che «il diritto all’identità è un grande problema anche a casa nostra, però è molto ignorato, non è “sexy” come altre questioni politiche. Eppure migliaia di italiani che vivono ai margini della società, muoiono e rischiano veramente di finire in questo limbo enorme dei senza nome».
Dottoressa Cattaneo, quando ha cominciato gli studi pensava di arrivare a svolgere questa attività tra medicina legale e antropologia?
«Avevo il dilemma tra scienze e lettere. Sono cresciuta in Canada dove ero emigrata, sono tornata in Italia e ho studiato al classico, sono ritornata in Canada e ho fatto biologia, poi mi sono presa un anno. Lavoravo per una ditta di archeologia, spalavo la terra a Milano e ho conosciuto gli archeologi, da loro ho saputo che c’erano dei master in Inghilterra che univano un po’ le due anime. Si studiavano gli scheletri del mondo antico e ho fatto quello, il dottorato. Ma avevo sempre il grillo parlante di mio padre che diceva “fai Medicina, fai Medicina”, e quindi mi sono laureata mettendo un po’ tutte queste cose insieme. A metà anni ’90 stavano cominciando a dilagare le fiction americane, ma soprattutto la realtà scientifica americana parlava di antropologia forense. Da lì è iniziato tutto».
Lei ha detto di aver trovato sul cadavere di un migrante torturato in Libia le stesse fratture ossee di uno scheletro di 2.000 anni fa sottoposto alla “ruota”.
«Vero. È molto importante, per il presente, studiare il passato. Al Musa studiamo 15mila scheletri che rappresentano Milano in 2.000 anni di storia ed è molto interessante analizzare tematiche come la violenza per vedere che… non è cambiato niente».
Cos’altro ha capito osservando gli scheletri dei milanesi del passato?
«Gli archivi storici del 1.400 indicano le precise cause di morte. Ecco, si parla tanto di femminicidi: le donne si ammazzano molto di più oggi che nel Medioevo».
Come mai?
«Alcuni storici dicono che la donna in passato non aveva un ruolo importante e dava meno fastidio. Altri esperti del nostro gruppo ribattono che nel ’400 la donna milanese non era per nulla costretta in casa, anzi. Non c’è mai una spiegazione unica, però siamo spesso convinti che tutto sia migliorato rispetto al Medioevo, quando forse non è così».
E quella denuncia della pittrice Artemisia Gentileschi vittima di stupro, non ha ancora cambiato la realtà, quattro secoli dopo.
«Malgrado la nostra attenzione su questi argomenti, non siamo una società migliore. Come stanno dimostrando anche le indagini genetiche, nell’antichità Milano era una città super multietnica con persone da ogni angolo del mondo, sepolte tra l’altro non in tombe povere ma anche ricche. Oggi vediamo che chi ha la pelle scura, pedala su una bici da rider».
Cosa pensa di quanto accade a Gaza?
«Siamo sempre lì. Queste enormi violazioni dei diritti umani fanno pensare che la guerra c’è sempre stata e temo ci sarà sempre. Mi impressiona il fatto che ci possa essere così poca memoria storica».
Il suo lavoro è forse un continuo unire i puntini tra ricerca storica, antropologia e scienza?
«La sua è una definizione che mi piace molto, il mio lavoro è ricostruire il passato attraverso il linguaggio scientifico del corpo, che sia un passato di due ore fa su un vivente maltrattato, oppure di 2.000 anni fa su un vecchio scheletro. Ricostruisco delle storie con strumenti che vanno da quelli dello storico a quelli del giurista. Sì, ho davvero l’impressione di unire i puntini. A volte capita di avere un quadro preciso, altre siamo fuori contesto».
Lei ha studiato al liceo classico: questo l’ha aiutata a unire i puntini?
«Mio padre mi ha obbligato, tra virgolette, a fare tante cose. Una di cui gli sarò sempre grata è questa. Vedo ancora i ragazzi che arrivano dal liceo classico con una formazione davvero all’altezza. Penso che greco e latino siano una vera palestra neurologica».
E se dovesse consigliare ai giovani quale percorso seguire?
«Devono prendersi il tempo necessario per formarsi pienamente. Questo mondo sta diventando ultra-tecnologico e anche i percorsi universitari sono specialistici. Consiglio di godersi gli anni prima dell’università seguendo una formazione globale. Il classico forse è rimasto uno dei pochi posti dove te lo puoi permettere. È una palestra cerebrale per capire, a livello culturale e storico, cosa ci ha portato a essere ciò che siamo diventati».
La difficoltà è avere una visione globale?
«Le ricerche di superficie su Internet non grattano il fondo e si perde anche quella fatica che serve per formare il muscolo, per formare la testa».
Immagino che nel suo lavoro si confronti spesso con la fatica.
«Assolutamente sì, di tutti i tipi: la fatica umana, emotiva, fisica. È un lavoro logorante che richiede tanta mediazione tra consulenti, giudici, agenti. Un lavoro scientifico che però ti porta a confrontarti con Soprintendenza, Prefettura, Procura. Non ti stufi mai, è affascinante, però a volte è faticoso, anche umanamente. Portare fuori questo lavoro è complesso. Posso studiare una necropoli ma se non vado a vedere gli scavi, ottengo metà di un risultato. La stessa cosa per la Procura. Posso fare l’autopsia e chiuderla lì. Ma se invece parlo col Pm, cerco di andare oltre, e magari arrivo a una verità molto diversa».
Quindi alla base c’è anche un lavoro di comunicazione?
«Tantissimo. Il lavoro del medico legale è una traduzione dal mondo della scienza a quello giuridico».
Elisa Claps, Yara Gambirasio, Liliana Resinovich, Chiara Poggi: lei si è occupata di autopsie sui corpi di vittime coinvolte in casi celebri di cronaca. Cosa pensa dell’eco mediatica che accompagna queste storie?
«Molti suoi colleghi sono scrupolosi, altri “creano” la notizia. È diventato un po’ un gioco social in cui ognuno dice la sua. E questo va benissimo, se non fosse che dietro ci sono famiglie che hanno perso qualcuno. Funziona mediaticamente? Però che tutto diventi un gioco da divertissement in prima pagina, da salotto televisivo, non mi sembra giusto».


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