Alto contrasto | Aumenta dimensione carattere | Leggi il testo dell'articolo
Home Articoli Rivista Idea «Siamo egocentrati malati di “io” la cura è nel “noi”»

«Siamo egocentrati malati di “io” la cura è nel “noi”»

Lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli protagonista di tre incontri tra Alba, Bra e Verduno su invito della Fondazione Ospedale: «La cura è l’antidoto all’indifferenza»

0
1

Ci sono voci che hanno il potere di rallentare il tempo. Non alzano mai i toni, non hanno bisogno di frasi urlate: parlano con la chiarezza di chi ha osservato a lungo l’animo umano e con la tenerezza di chi continua a credere che la fragilità sia un bene prezioso. La voce di Vittorino Andreoli appartiene a questa rara categoria. Psichiatra e scrittore tra i più autorevoli, autore di decine di saggi e opere che hanno segnato la cultura italiana, Andreoli ha attraversato la psichiatria con uno sguardo sempre rivolto all’uomo nella sua interezza: corpo, mente, desideri e paure.

Il 13 e 14 ottobre sarà ad Alba e Bra, ospite della Fondazione Ospedale Alba-Bra per una serie di incontri con studenti e cittadini. Il titolo che accompagna la sua riflessione – “Dall’io al noi nella cura” – è già di per sé un manifesto: un invito a uscire dal guscio dell’individualismo per riscoprire la bellezza e la forza del legame.

Abbiamo avuto il privilegio di una lunga conversazione telefonica con lui. Quaranta minuti in cui la sua voce ha intrecciato memorie, esperienze cliniche e visioni sul presente. Ne è nata un’intervista che non vuole solo informare, ma toccare corde profonde, invitandoci a guardare alla cura come a un gesto collettivo, fatto di responsabilità e di amore.

Professore Andreoli, perché oggi la parola “cura” è così urgente?
«Perché viviamo in una società che confonde il benessere con l’efficienza, che misura il valore delle persone in base alla produttività o all’apparenza. Ma la vita, prima o poi, ci mostra che siamo fragili, che non bastiamo a noi stessi. E allora emerge il bisogno della cura. Non è un optional, ma una necessità vitale: significa accorgersi dell’altro, riconoscerlo nella sua interezza, fermarsi per ascoltarlo. La cura è l’antidoto all’indifferenza e, senza di essa, nessuna società può dirsi umana».

Il titolo del suo intervento, “Dall’io al noi”, sembra proporre una piccola rivoluzione culturale.
«Sì, perché l’io è indispensabile: è la coscienza della propria unicità. Ma se l’io resta chiuso diventa sterile, autoreferenziale. La vita si compie solo quando l’io incontra un altro io e insieme si trasformano in un noi. Questo passaggio non è facile, perché implica rinunce, compromessi, generosità. Ma è lì che nasce il senso della comunità e anche il senso stesso della cura. Curare non è mai un atto solitario: è un incontro, uno scambio, un abbraccio di fragilità. Nel “noi” troviamo la forza di affrontare il dolore e persino la morte».

Incontrerà gli studenti delle scuole di Alba e Bra. Cosa sente più urgente dire a un giovane oggi?
«Vorrei trasmettere un messaggio semplice: non abbiate paura della vostra fragilità. La società vi spinge a mostrarvi forti, vincenti, impeccabili, ma è una maschera che pesa e che logora. La verità è che siamo tutti fragili, e lo saremo sempre. Ricono­scerlo non è una sconfitta, ma un atto di verità che ci rende più vicini. Ai ragazzi dico: “non isolatevi, non pensate che le difficoltà vi rendano meno degni. Al contrario, proprio la fragilità vi mette in relazione, vi apre agli altri, vi permette di scoprire la bellezza del “noi””».

Lei ha sempre intrecciato la scienza con la scrittura. Che ruolo hanno le parole nella cura?
«Le parole sono già cura. Non sono semplici strumenti di comunicazione, sono ponti che ci uniscono. Dire il proprio dolore significa cominciare a guarire, perché il male interiore, quando resta chiuso, si trasforma in solitudine e disperazione. La parola lo apre, lo consegna a qualcuno che ascolta. E qui entra in gioco l’ascolto: un ascolto vero, profondo, non giudicante. In tanti anni di lavoro ho capito che ascoltare un paziente con rispetto e attenzione è già una forma potente di terapia. Con le parole si restituisce dignità, si dà un nome all’angoscia e si trasforma il silenzio in speranza».

Nei suoi libri lei ha parlato spesso di solitudine. È una delle grandi malattie del nostro tempo?
«Sì, e lo vedo ogni giorno. La solitudine, quando è scelta, può essere creativa, un’occasione per pensare o scrivere. Ma quando è subita diventa devastante. La società contemporanea, paradossalmente, amplifica la solitudine: ci illude di essere connessi, ma in realtà ci lascia più vuoti. Viviamo circondati da messaggi e notifiche, eppure mai come oggi tante persone confessano di sentirsi sole. La cura, allora, è ritrovare legami autentici: guardarsi negli occhi, condividere il tempo, coltivare amicizie reali. Non basta la tecnologia: occorre la vicinanza, la presenza fisica, il calore umano. Senza comunità, la solitudine diventa malattia».

Cura e comunità: due parole che lei lega spesso. Che cosa significa, concretamente, una comunità che cura?
«Significa una comunità che non lascia indietro nessuno. Una città, un paese, una scuola possono diventare luoghi di cura se sanno accogliere la fragilità di ciascuno. Non è solo compito dei medici o delle istituzioni sanitarie: è una responsabilità diffusa. La salute non riguarda soltanto i parametri clinici, ma anche la qualità delle relazioni, la fiducia reciproca, la solidarietà. In questo senso, ogni gesto di attenzione – un sorriso, un ascolto, un aiuto pratico – diventa parte di una medicina collettiva. Una comunità che cura è una comunità viva, capace di generare speranza».

Se potesse lasciare un messaggio alla comunità che la accoglierà, quale sarebbe?
«Vorrei dire: “custodite il valore del “noi”. Non cedete alla tentazione di pensare che da soli si possa bastare”. La vera forza non è l’autosufficienza, ma la capacità di costruire legami. Ad Alba e Bra porterò proprio questo invito: fate della vostra comunità un luogo di attenzione, di ascolto, di inclusione. Perché la salute non è solo assenza di malattia, ma la gioia di sentirsi parte di un insieme. E solo insieme possiamo prenderci cura della vita».

Ascoltare Vittorino Andreoli significa attraversare un paesaggio fatto di fragilità e di speranza, di ombre e di luce. Ogni sua parola sembra riportarci a ciò che, troppo spesso, dimentichiamo: che siamo esseri vulnerabili, e che proprio in questa vulnerabilità si nasconde la nostra vera ricchezza. Il suo invito a passare dall’io al noi non è uno slogan, ma una via concreta, quasi una cura collettiva. Ci ricorda che la salute non è soltanto guarigione clinica, ma appartenenza, legame, comunità. Forse il senso più profondo di queste giornate ad Alba e Bra è tutto qui: ritrovare il coraggio di guardarsi negli occhi e riconoscersi parte di un destino comune.
Perché, come dice Andreoli, «solo insieme possiamo prenderci cura della vita».

BaNNER
Social media & sharing icons powered by UltimatelySocial