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«Antigone-Creonte invertire i ruoli è una rivelazione»

Francesca Mazza ci parla della prima attrice che interpretò Amleto e degli archetipi da rivalutare: «Il mio percorso non annovera il repertorio canonico»

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«La sua anima era così potente che bruciava il cor­po». Francesca Mazza parla dell’anima di Sa­rah Bernhardt, la prima attrice che osò incarnare un personaggio maschile, Amleto, quando aveva cinquantacinque anni. Ora Francesca ne ha pochi di più e se si schermisce sulla po­tenza dell’anima che invece è grandissima, ha appena incarnato Creonte nell’“Antigone” di Jean Anouilh, spettacolo che ha debuttato al Teatro Romano di Ostia Antica con la regia di Roberto Latini, il quale ha riservato per sé il ruolo di Antigone. D’altra parte le sperimentazioni fanno parte del suo imprinting fin dagli esordi, poco più che ventenne, con Leo de Be­rardinis, di cui è stata musa e compagna, complice in un lavoro condotto nel segno di una ri­cerca sincera, che ha prodotto spettacoli che fanno parte della storia del teatro come “La tempesta”, “Novecento e mille”, “Quin­tett” dedicato alle figure classiche e tratto da Orfeo, Em­pedocle, Eschilo, Sofocle, Ra­nie­ri de’ Calzabigi, Rimbaud.

Tut­tavia immagino che di fronte a un’inversione di ruoli così letterale non si sia mai trovata. Francesca, un bell’azzardo, La­tini Antigone e lei Creonte.
«Più che un azzardo si è trattato di dare la parola a due voci. An­tigone e Creonte non sono in­nanzitutto un uomo e una don­na, ma due archetipi. Per questo possiamo dare loro voce in­dipendentemente dal genere».

E sulla voce e sul corpo ha fat­to una lavoro particolare?
«No, la voce è la mia; dal punto di vista estetico uso una ma­schera e indosso costumi mo­derni».

La figura di Antigone, così come quella di Creonte, è conosciuta ai più attraverso la tragedia di Sofocle, la legge della famiglia e la legge dello Stato, che fa di Creonte un inflessibile rappresentante della legge, oggi di­remmo fiscale, uno di quei go­vernanti un po’ paravento, protetti dal ruolo e poco inclini a ri­schiare. Anouilh invece la cala nel contesto storico della Fran­cia occupata dai nazisti e il conflitto diventa quello tra Re­sistenza e Collaborazionismo. Il suo Creonte come ne esce?
«In Anouilh la scrittura non è co­sì netta. Qui c’è un Creonte molto lontano dall’idea del po­tente tiranno che siamo abituati a conoscere, questo Creonte è fragile, e il conflitto prima di es­sere con Antigone è tra la propria volontà di risparmiarla e la necessità di assumersi una responsabilità».

Al punto che fino alla fine cerca di persuaderla a un ripensamento.
«Infatti. Anouilh ci dice anche che la legge di Antigone è arcaica e il suo punto di vista pare quasi reazionario. Lei non agisce per il fratello ma per sé stessa, per un bisogno di ribellione che si oppone alla necessità di dire di sì. L’assunzione di re­sponsabilità comporta sempre conseguenze ma qualcuno do­vrà pure assumersele e suo malgrado lo fa Creonte».

Ha senso dunque parlare di in­versione non solo dei ruoli ma degli archetipi per cui sarebbe Creonte il vero ribelle?
«Non c’è tra i due una distinzione così netta e non credo si pos­sa fare una distinzione manichea. L’invito è a interrogarci sul­le reali necessità e su cosa sia giusto o sbagliato in relazione ad esse».

Roberto Latini che tra le altre co­se dirige il Festival Orizzonti, a Chiusi, ha voluto dedicarle una delle cinque serate d’onore, una bella idea che ricorda molto il teatro di un tempo, quello che sapeva di vecchi bauli e lunghe tournée, e anche un po’ di divismo.
«L’invito alla serata d’onore è ar­rivato quasi in contemporanea con quello di Laura Mariani (docente di Storia dell’attore al­l’Università di Bologna, nda) con il suo libro “L’Ottocento delle attrici” che mi chiamò in­sieme ad altre colleghe per leggerlo e raccontarlo alla presentazione. Quell’occasione mi die­­de lo spunto per immaginare la mia serata d’onore, un po’ come nell’Ottocento quando era consuetudine che gli attori avessero la serata d’onore in cui presentavano il loro cavallo di battaglia, di solito un pezzo famoso, universalmente conosciuto».

E qual è il suo cavallo di battaglia?
«Siccome il mio percorso non an­novera il repertorio canonico, ho ragionato su cosa sia davvero repertorio e ho scelto alcuni pezzi rintracciati nella me­moria che alterno a mie riflessioni sull’essere attrice. La chiusa è un racconto tratto da “La mia Africa” di Karen Blixen che può riguardare la vita di tutti, in cui succede che cadiamo, ci rialziamo e insomma, viviamo».

Cosa intende quando dice che il suo non è un repertorio canonico?
«Che nel mio percorso non ci so­no nomi come Strehler, Ron­coni, Castri. Sono nata nell’ambito della ricerca e quando da sempre si frequenta l’avanguardia, finisce che ci si apparenta».

Le manca il cosiddetto repertorio?
«No perché ho fatto cose belle e avuto tanti begli incontri».

Da un po’ di tempo lavora con registi più giovani, rappresentanti di una nuova avanguardia forse difficile da collocare. A par­te Latini, molto con Fabrizio Arcuri e Leonardo Lidi.
«Fabrizio mi ha rivoltato come un calzino. E non è frequente a cinquant’anni trovare un altro modo di stare in scena. Io sono stata allevata alla scuola di Leo De Berardinis, rigore assoluto, disciplina, controllo costante. Era un modo di lavorare diverso, e un po’ lo rimpiango perché è sempre più raro, dove tutto doveva avere un senso profondo, una necessità».

Ma in che senso Arcuri l’ha rivoltata?
«Fabrizio è più anarchico e lavorando molto sulla triangolazione attore regista e spettatore, sull’apertura al pubblico, mi ha mostrato che potevo essere più libera».

Ricordo la messa in scena di “An oak tree” di Tim Crouch dove ogni sera era presente un attore ignaro del copione.
«Un attore che guidava e uno che non doveva sapere niente: l’incarnazione dell’incubo dell’at­tore, non sapere la parte, non tro­vare la strada dal camerino al palcoscenico. Lui mi ha portato dentro a questo incubo e a cinquant’anni mi ha tolto la sicurezza del mestiere».

Tolta la sicurezza resta il talento: “Sono Dorothy e ho cinquantadue anni” era l’attacco di “We­st” lo spettacolo di Fanny & Alexander ispirato a “Il mago di Oz” dove si faceva un lavoro analogo, con gli auricolari.
«E una partitura diversa preparata ogni sera, di cui ero all’o­scuro. Andavo in scena dicendo “che Dio me la mandi buona”. Eppure in questo dispositivo perverso, in questa condizione di coercizione assoluta, in cui dovevo sottostare a ordini che non conoscevo a cui non mi potevo sottrarre, ho sperimentato la libertà da me stessa».

Davvero si sentiva così ingabbiata?
«Io fatico molto a dire di no e messa in condizioni in cui non potevo non dirlo, ho trovato il coraggio. Ma tutto questo lo de­vo a Leo, che mi ha dato una solidità che poteva permettersi di essere minata».

Un regista accreditato e coraggioso è Leonardo Lidi, credo il più giovane con cui ha lavorato: da Cechov nella trilogia a Garcia Lorca come Bernarda Alba a Mo­liere con “Il misantropo”, que­sta una riscrittura abbastanza audace.
«Facevo Arsinoè, l’amica di Ce­limene (la giovane donna di cui il misantropo è innamorato nda) e Lidi mi ha costruito un monologo bellissimo, un punto nodale dello spettacolo, uno spartiacque, che in parte veniva da un poema di Yiannis Ritsos. Spettacolo senza fronzoli, che ho amato moltissimo, per la so­brietà e il rigore nella bellezza».

 

ALESSANDRA BERNOCCO

BaNNER
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