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«Ricchi o poveri? Abbiamo un futuro ma dipende da noi»

Annalisa Bruchi è protagonista della passeggiata letteraria di lunedì a Fontanafredda assieme ad Aldo Cazzullo per presentare il suo nuovo libro: «In Italia manca l’educazione finanziaria»

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L’ispirazione per scrivere un li­bro con un titolo come “Ric­chi o poveri?” nasce da lontano: «Dal 2008, quando ci fu la crisi globale dei mutui americani. E poi nel 2010 quando si parlava della crisi dei debiti pubblici della Gre­cia, con la trojka che minacciava misure rigidissime. E in seguito, negli anni dello spread e della riforma delle pensioni, con le lacrime della Fornero. E quando ci sembrava di stare meglio, ecco il Co­vid. Quando ne siamo, usciti ecco infine le guerre».

Annalisa Bruchi, alla fine siamo “Ricchi o poveri”?
«Nel libro cerchiamo di spiegare che i dati non sono semplici da interpretare. Anche quelli del Pil, per esempio, non raccontano le disuguaglianze, ovvero uno dei mali fondamentali. In definitiva l’Italia è un Giano bifronte, siamo il secondo Paese manifatturiero e una delle sette economie più grandi del mondo. Però dall’altra parte abbiamo una serie di problemi strutturali, con gli stipendi che non crescono da trent’anni. Sia­mo un Paese che ha gravissimi problemi di competitività e un’alta evasione fiscale. Quindi c’è un punto interrogativo. Cioè, diventiamo sempre più poveri o miglioriamo lo stato della ricchezza? Dipende fondamentalmente da noi, dalle scelte che faremo nel futuro. Perché siamo in un modo globalizzato e c’è il fa­moso effetto farfalla. Se un evento capita a Washington, anche se sembra insignificante a Stras­bur­go o Bru­xelles, va a impattare direttamente anche nelle questioni italiane, dai mercati finanziari a quelli rionali».

Da qui l’esigenza di scrivere questo “manuale di sopravvivenza”?
«In quindici anni siamo passati da una crisi all’altra. Abbiamo capito quanto l’e­conomia sia cruciale nella no­stra vita. Ma le persone so­no più confuse che persuase, nei talk show va tutto be­ne, poi tutto male, arriva un partito al governo e ti dice che stiamo migliorando, l’opposizione no, dice “i dati non li sapete leggere…” Così assieme a Carlo d’Ippoliti, con cui collaboro dal 2010, abbiamo cercato di fare ordine partendo da quando la Rai, con il dg Gubitosi, mi chiese di occuparmi del programma “Restart”».

Perché permane questo clima di incertezza?
«Purtroppo in Italia c’è un’e­ducazione finanziaria di li­vello molto basso, mentre ne­gli altri paesi si studia già nei primi anni. Cos’è un conto corrente? Come si usa­no gli assegni, cosa sono i ti­toli di Stato? Se tu non conosci l’economia, non scegli co­me dovresti e qualcuno sceglie al tuo posto. E non ti fa un favore».

Ha accennato agli stipendi bassi: perché accade solo in Italia?
«I nostri stipendi sono bloccati da trent’anni, però il reddito medio italiano pro-capite è poco più di 35mila euro l’anno mentre la media europea è di 40mila l’anno, per cui non c’è tutta questa differenza. La media mondiale è di 13mila euro. Cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno, le cose non vanno in modo disastroso come pensiamo. All’inizio del ‘900 ave­vamo un livello di benessere simile a quello dell’Ar­gentina, con il miracolo economico del secondo dopoguerra siamo arrivati tra le sette economie più grandi del mondo. Però abbiamo ti­rato il freno a mano».

E ora come si fa a ripartire?
«Faccio sempre il paragone del calabrone. Volevo anche metterlo nel titolo del libro, se non fosse che “il volo del calabrone” scritto da Bru­chi… Per le leggi della fisica il calabrone è un insetto pesante con ali piccole e sgraziate, che non dovrebbe volare. Un po’ come noi italiani che invece voliamo perché co­munque abbiamo menti ec­celse, una manifattura incredibile, un export molto im­portante, uno stile di vita che ci invidia tutto il mondo, la moda, il cibo. Dobbiamo cercare di non rovinare queste meraviglie che ci ha dato il Creato e tutti gli imprenditori che hanno sviluppato una manifattura molto im­por­tante».

Ma Trump ha tirato fuori i dazi…
«Si sapeva che l’avrebbe fat­to, perché uno dei problemi della manifattura del mondo globalizzato è che molto la­voro si è spostato in paesi dove costa meno. La globalizzazione ha tolto po­vertà a due miliardi e mezzo di persone, però ha impoverito il ceto medio e ha spostato l’industria verso Paesi come la Cina dove il costo del lavoro è molto più basso».

Cosa fare?
«Dobbiamo lavorare sulle ec­cellenze che abbiamo, to­gliendo una serie di vincoli che non rendono il nostro paese competitivo. E lì ci vuole la politica, le decisioni a livello a europeo. Ne parliamo anche nel libro. E abbiamo sfide molto importanti come la digitalizzazione, il green».

Ma l’alta finanza ha scalzato la politica dal tavolo decisionale.
«La politica deve riprendere il primato e capire quali sono le sfide importanti. La digitalizzazione, l’intelligenza ar­ti­ficiale, per esempio. Siamo l’Europa, ma purtroppo su tante sfide restiamo indietro. Men­tre si è affermato Star­link, noi ancora parliamo di Iris, il programma satellitare europeo che non è operativo. E in Cina hanno già reso ob­bligatorio lo studio dell’intelligenza artificiale nelle scuole elementari».

L’Europa paga per paradosso la sua antica tradizione culturale?
«Esatto, le troppe regole, i famosi balzelli. Vale a livello nazionale, ma anche europeo. I famosi dazi interni di cui parla anche Draghi. E poi le disuguaglianze. Abbiamo un ascensore sociale bloccato. Un bambino nato a Tren­to vive in media tre anni in più di uno nato a Napoli. La disuguaglianza non è una variabile accessoria, è diventata strutturale. In Italia se nasci povero hai più del doppio delle probabilità di restare povero rispetto a chi nasce in una fascia media. La po­vertà ormai si eredita».

Dopo essere stata a Dogliani per il Festival della Tv, tornerà per la Passeggiata letteraria a Serralunga d’Alba assieme ad Aldo Cazzullo: che idea ha del Cuneese dal punto di vista imprenditoriale?
«Avete eccellenze incredibili, diverse “best practice” e la fortuna di aver concentrato tante belle menti e tanta ricchezza. Dai paesaggi ai grandi imprenditori, questa è una bellissima realtà».

In Italia l’approccio all’economia è frenato da un tabù culturale?
«Credo sia una questione di formazione e di scuola, se si pensa che solo il 58% delle donne in Italia ha un conto corrente. Sui temi finanziari siamo molto indietro».

A proposito, lei rappresenta uno stile giornalistico incalzante che oggi vediamo interpretato da diverse donne in tv: coincidenze?
«Io ho avuto un grande maestro che è Giovanni Minoli, lui ci parlava sempre dell’importanza della seconda do­manda. Cioè non ti devi fermare alla prima domanda, devi andare oltre per cercare di capire chi hai davanti. Non so se è una caratteristica femminile, ma forse noi don­ne, senza essere aggressive, sappiamo essere decise e sappiamo non mollare».

Sapere di economia oggi è un requisito base?
«C’era uno studio inglese che, a proposito del modello italiano, sottolineava come i bambini da piccoli, vogliono fare tutti gli stessi mestieri. Poi, crescendo, le bambine de­vono seguire materie più umanistiche, invece dai ma­schietti ci si aspetta altro. È un peccato. Per fortuna vedo che mia figlia 24enne non deve più confrontarsi con certi pregiudizi e mi auguro che sempre più donne si dedichino alle materie tecniche. E poi che rimangano in Italia».

La rivoluzione dell’Intelligenza artificiale cambierà totalmente l’economia?
«L’ha detto anche Leone XIV, quella sarà la sfida del futuro. Ci dobbiamo attrezzare anche noi, non solo con regole e vincoli. Dobbiamo gestirla e non farci gestire. Dob­biamo fare in fretta, non aspettare. Questo è il futuro».

BaNNER
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