«Fortunato a vivere coi ragazzi, penso di avere la loro età»

Riccardo Piatti, ex allenatore di Sinner, ha fondato la sua accademia a Bordighera dove fa crescere i campioni del futuro

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Passione, attenzione ai dettagli, de­di­zione totale. So­no questi i cardini della visione di Riccardo Piatti, allenatore di tennis da oltre 40 anni che ha portato al successo atleti del calibro di Jannik Sinner e Ivan Ljubičić, ha lavorato con Novak Djokovic, Maria Sharapova, Richard Ga­squet, Milos Raonic, con gli azzurri Fabio Fognini e Simone Bolelli e ha guidato sin dall’età giovanile Renzo Furlan, Cristiano Caratti e Omar Camporese.
Una lunga serie di aneddoti e curiosità saranno raccontati direttamente dal coach giovedì 19 giugno al Coun­try Club di Cuneo, in occasione della tavola rotonda ospitata dall’appuntamento “L’arte del tennis secondo Riccardo Piatti – Il metodo dei Campioni” organizzato in collaborazione con la Concessionaria Gino SpA. In attesa di questo momento di confronto e ispirazione, che sarà preceduto da una clinic privata con il celebre maestro di tennis, abbiamo provato a conoscere meglio il 66enne comasco che nel 2018 ha fondato la Piatti Tennis Academy a Bordighera che punta a preparare i giocatori ad affacciarsi alla carriera tennistica professionistica.

Piatti, che tipo di allenatore è?
«Sono semplicemente una persona a cui piace fare ciò che fa. Insegno a giocare a tennis e mi piace far crescere i giovani».

Parlare di giovani in questo periodo è una sfida epocale: come trova ragazzi e ragazze disposti ad affrontare un certo tipo di percorso anziché cercare di volere tutto e subito?
«Anche da giovani, è fondamentale la passione, nello sport e nella vita: è il motore per affrontare percorsi difficili. Il tennis è una disciplina educativa, ma nessuno è costretto a farla: va intrapreso il percorso solo se porta con sé passione e divertimento. Il supporto delle famiglie è determinante, ma non solo per il tennis, nel trasmettere va­lo­ri e principi».

A proposito di valori, come si affronta il tema della scuola?
«All’accademia di Bordighe­ra, arrivano anche alcuni tennisti molto giovani, stranieri nella maggior parte dei casi, circa l’85%. Considero questo un aspetto positivo e stimolante: la scuola non va assolutamente abbandonata, l’avventura sportiva porta con sé anche una crescita culturale rappresentando un vero e proprio percorso di vita, non soltanto puramente tennistico».

È più importante un buon allenatore o un valido am­bien­te di lavoro?
«Soprattutto per i giovani, l’ambiente è fondamentale, ma in quell’ambiente ci dev’essere un buon educatore. Non mi stancherò mai di ripetere che lo sport è divertimento e in un contesto sano le cose si imparano».

La Piatti Academy si articola in maniera molto complessa e può contare su uno staff numeroso e: quali sono i principi che regolano l’attività?
«Il metodo di lavoro, che rappresenta tutto ciò che insegniamo, e il modello di lavoro, che traccia i confini in cui lavorano le varie aree che da noi si dividono in tecnica, fisica, fisiologica e mentale. Da sempre, il mio obiettivo è stato quello di rendere gli atleti indipendenti come giocatori, in tutto e per tutto, non soltanto prepararli a vincere».

Quando si affronta un percorso ambizioso, è più importante la dedizione o il talento?
«La dedizione è l’aspetto prin­­cipale, soprattutto quan­­­­do si attraversano situazioni difficili e la passione rende divertente il superamento degli eventi complicati. Al Centro, sin da bambini, i giovani tennisti imparano a gestire i momenti di forte pressione che non arriveranno soltanto durante la carriera tennistica, ma sono parte della vita di ognuno di noi».

Cosa prova a forgiare un campione?
«Ho lavorato con molti giocatori che voi chiamate campioni, ma sapete una cosa? Loro sono i più… normali. Sono quelli che hanno meno problemi nel percorso verso il successo. Le sfide più grandi, i tennisti più problematici, sono quelli che invece non arrivano al successo».

Che effetto le fa vedere Jan­nik Sinner così in alto?
«Come si fa a non provare emozioni positive? Vede­re quella finale al Roland Garros, una par­t­ita giocata in quel mondo, è un’emozione for­te per tutti, non soltanto per me. Assistere ad una partita così, con due giocatori di quel calibro protagonisti, mi gratifica e mi offre altri spunti di crescita. È stato un momento indimenticabile per i tifosi, ma anche un segnale importante per il tennis. In tanti si chiedono dove possa andare questo sport dopo Federer, Nadal, Djoković: la finale di Parigi ha dato una chiara risposta».

Anche un percorso che si conclude porta con sé risvolti positivi quindi?
«Non voglio parlare solo di Sinner, ma è vero che i suoi risultati di oggi mi aiutano per capire ancora meglio che cosa devo imparare, che cosa devo fare, che cosa ho fatto. Ho lavorato solo un anno con Djoković, aveva 18 anni, ma erano già evidenti tutte le sue caratteristiche. Bene, la sua storia mi ha aiutato a capire ancora meglio il tennis».

Ha ancora dei sogni nel cassetto?
«Da 45 anni faccio questo lavoro, ho vissuto tante vite, quelle dei giocatori, e ora mi stimola e mi diverte entrare nelle vite dei giovani atleti. È una fortuna vivere con i ragazzi perché quando stai coi giovani, pensi di avere la loro età. È per questo che continui a sognare, vivendo i sogni dei ragazzi. Se guardi i giovani, vedi il futuro».

ALBERTO FUMI