La voce è ferma e gentile, le parole esprimono una vitalità che resta prorompente sulla soglia degli 80 anni che compirà ad agosto. Rita Pavone ha appena scritto un libro, “Gemma e le altre” che prende forma dal suo precedente concept album di 36 anni fa e che sarà presentato sabato al festival “Letti di notte” a Carmagnola. «Il libro? È stata una casualità. Avevo iniziato a scrivere per me stessa quando mi sono accorta che tanti autori e cantanti puramente interpreti – come me, Morandi o Nicola di Bari –, erano stati messi un po’ alla berlina. Eppure, avevamo costruito la fortuna della canzone italiana, la sua ricetta vincente, vendendo milioni di dischi. Allora ho cominciato a scrivere per altri e poi a occuparmi direttamente dei miei progetti – ci racconta Rita al telefono –. Il primo di questi era “Dimensione donna”, il secondo invece proprio “Gemma e le altre”, un viaggio nell’universo femminile in tutte le sue varie sfaccettature, comprese quelle dell’amore diverso».
E come è nata l’idea di affrontare un tema “in controtendenza”?
«Dal film “Quelle due” che avevo visto già nel ’77, di cui mi interessavano regia e cast. La regia era di William Wyler, quello di “Vacanze romane” e “Ben Hur”, assieme a lui c’erano due attrici come Haudrey Hepburn e Shirley MacLaine. È la storia di due insegnanti che mettono su un grande collegio per ragazze abbienti. Una di queste è la nipote di una donna molto importante in città e quando viene espulsa dopo essere stata sorpresa di notte fuori dall’istituto, la nonna vuole sapere che cosa sia accaduto. Così la ragazza, per vendicarsi, racconta che tra le due insegnanti c’è molto più che un’amicizia. A quel punto le famiglie cominciano a togliere le ragazze dalla scuola. Parliamo di un film del 1961 basato sulla piece teatrale di Lillian Hellman del 1934. E che io ho poi riproposto nel 1989: ancora oggi non sono argomenti facili da raccontare. Nella scena finale, tra il silenzio interrotto solo dalle onde del mare che si infrangono sugli scogli, Audrey Hepburn dice a Shirley MacLaine “dovevamo difenderci di più”, l’altra le risponde “la ragazza ha mentito, ma non del tutto”. E le racconta ciò che prova per lei. “Ho bisogno di prendere una boccata d’aria fresca”, risponde Karen (Audrey) mentre Martha (Shirley) la vede allontanarsi, osservandola dalla finestra».
Un film che la ispirò?
«Mi ha sconvolto la vita, piangevo come una bambina perché mi dicevo che non si dovrebbe amare qualcuno che non è la persona giusta. E da lì ho scritto il mio viaggio nell’universo femminile, anzi dopo una serata tra amici e amiche di età diverse che, tra un bicchierino e l’altro, si erano lasciati un po’ andare».
Ne venne fuori un disco pieno di musica, personaggi e storie.
«Volevo cantare certe umiliazioni, la voglia di rivalsa che in realtà non si concretizza mai e di cui alcuni uomini si fanno forti. Il disco ebbe recensioni fantastiche, però Gemma passava poco in radio, era ancora inammissibile parlare di una storia d’amore tra donne. Devo molto a Raffaella Carrà e Corrado Mantoni, gli unici che mi permisero di presentare il disco in tv, alla Rai».
E poi cosa è accaduto?
«Mi chiedevano sempre perché non riproponessi nei miei live “Gemma e le altre”. Allora ho cominciato a farlo. Dopo una serata alla Milanesiana dove ero ospite, mi chiama da parte Elisabetta Sgarbi (cofondatrice de La nave di Teseo, ndr) e mi chiede di quel disco. Le dico che il progetto è tutto mio e qualche giorno dopo mi telefona, si dichiara entusiasta dei miei testi e vuole farne un libro. Rimango un po’ sconvolta».
Perché?
«Ma vede, io non sono una scrittrice. Pensavo che trasformare quelle canzoni in racconti non sarebbe stato facile. Però alla fine mi sono divertita e anche commossa. Ci sono passaggi che raccontano frustrazioni e delusioni. Non so se il libro abbia un suo valore, una sua valenza effettiva, ma sicuramente non può passare inosservato».
Lo ha presentato anche al Salone del Libro di Torino.
«Sono stata felice di tornare vicino a casa. È la mia prima esperienza da scrittrice dopo un’autobiografia di qualche anno fa che mi fece guadagnare anche un premio. Ma scrivere di sé stessi è facile, creare personaggi è stato un bel lavoro. Ho parlato della donna in tutte le sue sfaccettature».
Nella nostra società, a che punto è l’integrazione femminile?
«Oggi le donne possono pienamente esprimere opinioni. Ma a volte i concetti diventano stucchevoli e perdono efficacia. Come nel libro, ci sono le “donne ferme” che accettano la vita così come è, che la portano avanti senza reagire. E ci sono invece le “donne che camminano”, che dicono va bene, ho sbagliato persona. Quindi mi rifaccio una vita».
Lei che strada ha seguito?
«Ho sempre cercato di trovare soluzioni, di alzare l’asticella, di provare emozioni che non avrei mai immaginato. Ho cominciato cantando, Antonello Falqui mi ha permesso di fare anche le imitazioni, Don Lurio m’ha fatto ballare, ho provato la rivista con Macario e il teatro classico con Franco Branciaroli, ho lavorato con Totò. Ho avuto la fortuna di incontrare grandi personaggi che hanno creduto nelle mie possibilità. Non volevo deluderli e ho lavorato molto su me stessa. Non ho mai mollato la volontà di crescere, di esserci, di fare e di capire».
Come vede il panorama attuale?
«È cambiata la musica. Non ci sono più melodie. I cantanti parlano e quel poco che cantano, non lo fanno neanche con la loro voce. Ma è il mondo che si sta evolvendo. Non so in quale direzione. Io avrò presto 80 anni, ho trascorso una giovinezza meravigliosa, nel senso che c’era qualcosa da costruire. Adesso non saprei. Mi dispiace molto per le nuove generazioni e per questi ragazzi che fanno due canzoni e improvvisamente si trovano davanti a 30mila persone a San Siro. Sono shock, bisogna saperli superare».
Fu uno shock per lei debuttare negli Stati Uniti?
«Sì ma ero preparata, fu un bellissimo shock condividere il palcoscenico con Tom Jones, i Beach Boys, con The Supremes, i Manhattan Transfer. Quando lavori in un altro paese, anche se non sanno chi sei, per il fatto stesso che ti trovi lì in quel programma, vuol dire che hai delle cose da dire. E senti subito rispetto. Questa è stata la cosa più bella. Fu eclatante per me riempire di gente la Carnegie Hall di New York presentata da Ed Sullivan, quando avevo 19 anni. Sono cose che ti rimangono dentro. E comunque oggi so che non si è mai appreso tutto, restano tante cose da conoscere».
Era così giovane che suo padre le chiese di rientrare a casa.
«Realizzai cinque lp per la Rca americana, con autori molto importanti. Ma non avevo ancora la maggiore età (era a 21 anni) e mia madre doveva stare vicino a mio fratello 12enne. Chiesi di poter avere una governante con me, che parlasse bene inglese, ma papà non volle saperne. Fu un grave errore».
E tornare in Piemonte oggi che effetto le fa?
«Agli inizi della carriera il Piemonte l’ho battuto in lungo e in largo con papà che scriveva sui cartelli “Rita Pavone la famosa cantante di Torino”. Gli dissi di lasciare stare, se fossi stata davvero famosa non avrebbe certo dovuto scriverlo. Fu lì che decisi di fermarmi. Ma mio padre – e per questo gli perdono tutto – mi iscrisse a un concorso canoro ad Ariccia, Castelli Romani. Vinsi con “La partita di pallone”, il mio primo disco».
Altri personaggi speciali che ha incontrato?
«Lina Wertmüller che mi scelse per “Gianburrasca”. Avevo già 18 anni ed ero completamente piatta, l’idea di interpretare un ragazzino non mi piaceva troppo, ma lei mi disse “se vuoi fare l’attrice devi saper entrare in tutti i ruoli. Hai tre fratelli intorno a te, studiateli”. Così feci e ancora oggi se rivedo quelle immagini non noto davvero differenze tra me diciottenne e quei maschietti che avevano 12-13 anni».