L’arte di Ernesto Morales «Dialoga con le Langhe»

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La location non è solo bella: è straordinaria, rigenerante. Immersa tra boschi e vigneti, in un paesaggio collinare dove «le colline salgono sempre, non per arrivare in cielo ma per gustare la bellezza di una terra che si inorgoglisce a ogni suono, a ogni gesto di una mano». È qui, nel cuore delle Langhe, che na­sce Artefora: un progetto artistico che unisce arte e metafora, in un territorio che diventa esso stesso opera. A fare da guida è l’artista argentino Ernesto Mo­rales, che ha scelto Castiglione Tinella come luogo in cui vivere e creare, fondando un centro culturale che oggi ospita il cuore pulsante del festival. Ar­tefora non è solo un progetto: è anche uno spazio fisico, un la­boratorio di idee, incontri e contaminazioni. Dal 21 giugno al 20 luglio 2025, la seconda edizione del festival “La collina sale sempre” coinvolgerà sei comuni tra Langhe e Monfer­rato: Castiglio­ne Tinel­la, Santo Stefano Bel­bo, Casta­gnole delle Lanze, Barbaresco, Neive e Alba. Una rassegna di arte contemporanea che intreccia paesaggio, comunità e produzione locale, creando un dialogo costante tra il visibile e l’invisibile. Il titolo prende ispirazione da un passaggio de “La luna e i falò” di Cesare Pavese, diventando il filo conduttore con cui gli artisti sono invitati a confrontarsi. Il festival propone una serie di inaugurazioni itineranti, laboratori, talk, incontri didattici e tour naturalistici, offrendo occasioni di approfondimento culturale e di riscoperta del territorio. La prima edizione, svoltasi nell’estate 2024, ha registrato un’affluenza straordinaria. L’e­di­zione 2025, organizzata dall’Asso­cia­zione Artefora in collaborazione con Radici Con­nes­se, si preannuncia ancora più ricca di contenuti e partecipazioni.

Incontro Morales a Castiglione Ti­nel­la, dove mi accoglie con calore per una breve ma intensa conversazione.

Le sue opere spesso evocano paesaggi sospesi tra sogno e realtà. Come nasce l’idea di un nuovo dipinto?
«Non c’è mai un inizio lineare. Le mie opere nascono da una lenta sedimentazione di im­pressioni e stati interiori. Può bastare un dettaglio fugace: un albero in lontananza, una sfumatura nella nebbia, una frase letta per caso. Da lì comincia un dialogo silenzioso con la tela, dove l’intuizione guida il gesto e l’immaginazione dà forma. I miei paesaggi sono ponti tra ciò che vedo e ciò che sento. Quel che cerco non è mai la rappresentazione del visibile, ma l’evocazione dell’invisibile. Og­ni quadro nasce da un’urgenza silenziosa, un’immagine che in­siste dentro di me fino a trovare la sua forma».

Qual è il ruolo della memoria e del tempo nella sua pittura?
«Centrale. La memoria filtra la realtà e la trasforma in qualcosa di più essenziale e poetico. Il tempo, invece, è una presenza che cerco di sospendere: nei miei lavori non c’è un “ora”, ma un “sempre”. Mi interessa quella soglia in cui tutto sembra sul punto di accadere o è appena accaduto. Un tempo circolare, interiore. La memoria non è mai documentale, è affettiva. Il tempo non è cronologico, è emotivo: ogni opera è un contenitore di attese, di nostalgie, di silenzi vissuti».

Ha vissuto in Uruguay, Ar­gentina, Italia, e ha esposto in molti Paesi. In che modo questi luoghi hanno influenzato la sua pittura?
«Ogni Paese ha lasciato una traccia profonda. L’Uruguay e l’Argentina mi hanno dato l’orizzonte e l’inquietudine esistenziale, l’Italia la luce e il legame con la grande tradizione pittorica. Ogni luogo mi ha insegnato il valore del vuoto, della misura, del gesto essenziale. Non mi interessa una pittura “etnica”, ma una sensibilità che assorbe e trasforma. Dipingere è anche un modo per mappare i luoghi interiori che ogni esperienza geografica attiva».

Ricorrono spesso nelle sue opere nebbie, nuvole, alberi solitari. Che valore simbolico hanno per lei?
«Sono elementi che evocano transitorietà e mistero. La nebbia nasconde, ma anche rivela. Le nuvole sono pensieri in movimento, forme mutevoli che parlano dell’impermanenza. Gli alberi solitari sono presenze silenziose e resistenti: testimoni immobili, ma interiormente vibranti. Parlano di solitudine, ma non di isolamento. Sono metafore del nostro essere al mondo: sospesi, vulnerabili, ma profondamente radicati in qualcosa che ci trascende. Mi interessano i simboli che non gridano, ma sussurrano».

Cosa pensa del mercato dell’arte contemporanea oggi, in particolare per artisti “silenziosi” come lei?
«Viviamo in un’epoca che privilegia il rumore, la provocazione, l’istantaneità. Non è facile per chi, come me, persegue una ricerca più intima. Ma credo che ci sia ancora spazio per un’arte che parla sottovoce, che invita alla riflessione. Chi cerca profondità, prima o poi la trova. Il mercato è mutevole, ma la verità dell’opera resta. Io continuo a credere in una pittura che non si spiega, ma si ascolta».

C’è un’opera, tra tutte quelle che ha realizzato, a cui si sente particolarmente legato?
«Sì, una delle prime che ho dipinto da bambino, a otto anni. Una natura morta, realizzata nello studio del mio primo maestro a Buenos Aires, che frequentavo ogni giorno dopo la scuola. In quel quadro c’era già una ricerca istintiva di equilibrio, silenzio, contemplazione.
È rimasto per anni nella mia famiglia in Argentina, finché non ho deciso di portarlo con me in Italia. Oggi lo guardo ogni mattina appena mi sveglio: mi ricorda da dove vengo e mi aiuta a restare fedele a quello stupore iniziale, a cui sento di dovere tutto».

Artefora ha un’anima collettiva?
«Sì, profondamente. Artefora nasce come spazio condiviso, dove la creazione è un gesto che si apre all’altro, che cerca relazione e risonanza. La sua anima collettiva è nutrita dalle voci di artisti, filosofi, scienziati, persone in ricerca. Ma anche – e soprattutto – dal dialogo con il territorio che la ospita: le Langhe. Un luogo che non è semplice cornice, ma parte viva del progetto. In questo paesaggio, denso di memoria e di bellezza, Artefora si radica e si trasforma in laboratorio culturale. Qui l’arte incontra la terra, la comunità, il tempo lento. Creare cultura in questo contesto significa ascoltare, intrecciare, restituire. È un modo per generare senso insieme, per costruire un’arte che non isola ma unisce, che non espone ma accompagna. Un’arte che crea pensiero, che accoglie, che fa spazio».

 

Bruno Murialdo