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Gol e dolore

Andrea Carnevale ripercorre in un libro la sua vita di campione segnata da una tragedia: aveva 14 anni quando il papà uccise la mamma. Dopo anni di silenzio sceglie il ricordo per sensibilizzare sui femminicidi, invitare a non ignorare i segnali e denunciare

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Ha vestito la maglia azzurra nelle notti magiche del 1990, quando l’Italia ospitò il Mondiale e regalò, anche senza vincere, emozioni intense. Nell’immaginario collettivo è rimasto il compianto Schillaci, con i suoi occhioni spiritati e increduli, ma c’erano Baggio e Vialli, Serena e Mancini. E c’era lui, Andrea Carnevale, una vita a far gol in Serie A con, tra le altre, Napoli, Roma e Udinese, due scudetti e una Coppa Uefa al fianco di Maradona.
Non vogliamo parlarvi, però, del campione, del bambino che voleva diventarlo e dello scout che si volta indietro e rivisita un sogno realizzato: vogliamo parlarvi di un giovanissimo testimone d’una tragedia familiare e d’un uomo maturo che non ha più paura di ricordare, di offrire la sua esperienza per contribuire a spezzare una strage senza tempo, per aiutare a capire il dramma spesso dimenticato dei figli delle vittime di femminicidio, per invitare a non sottovalutare i segnali violenti, ad ascoltare richieste d’aiuto infantili o adolescenziali. «Papà era gelosissimo, s’era fissato che mamma lo tradiva, e a casa c’era un clima di terrore: la insultava, la prendeva a botte davanti a noi, gli scatti d’ira potevano arrivare in qualsiasi istante. Poi, una mattina, appena sveglio afferrò un’ascia, la raggiunse al fiume dove stava lavando i panni e la uccise».
Era il 25 settembre del 1975, Andrea aveva 14 anni. Più volte s’era rivolto ai carabinieri, superando quel senso di vergogna che, specie nei centri piccoli, impedisce talvolta di denunciare, sentendosi rispondere che nulla si poteva fare «senza sangue». Quella mattina lo raccolse e andò in caserma: «Lo vedete adesso?» disse mischiando rabbia e dolore. Oggi lo racconta in un libro, “Il destino di un bomber”, e ne ha parlato in recenti interviste: dopo anni di riservatezza, chiusura rigida, ha deciso di aprirsi per sensibilizzare su un tema d’attualità ag­ghiacciante, per aiutare a superare le paure e denunciare, a non ignorare i segnali violenti. Il suo dramma non finì quella mattina, il papà si uccise anni dopo, intanto lui aveva trovato la forza di comprendere che era un uomo malato che nessuno aveva curato. Si rifugiò nel pallone e, rincorrendolo, arrivò al successo, ha giocato con Zico e il grande Diego, è caduto e s’è rialzato, oggi gira il mondo a scovar talenti, ragazzini con la qualità ma soprattutto la voglia di arrivare, lo spirito di sacrificio che aveva lui, qualità che lo portarono dalle categorie minori alla Serie A e alla Nazionale, con dentro, celato all’esterno, un macigno, un ricordo tragico e una domanda intima, terribile: «Per tanti anni – ha svelato a Vanity Fair – ho vissuto il dolore ma anche il timore di essere come lui. No, non sono lui. L’ho capito quando l’ho visto. Ed è stato il primo passo verso la liberazione».
Lo incontrò in carcere due anni dopo l’omicidio, lo abbracciò anche se gli aveva tolto tutto, e la consapevolezza di avere davanti un uomo malato favorì la comprensione e il perdono. Suo padre era affetto da schizofrenia, ma nessuno lo aveva mai curato: pochi anni dopo scelse il suicidio lanciandosi da una finestra e Andrea era lì, nella stanza.

BaNNER
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