Il suo è un format consolidato, una finestra che si apre all’interno del contenitore rumoroso di “Striscia” e fa entrare aria fresca. Spesso, quella di Langa, come nel caso di una recente puntata ambientata a La Morra, terra di Nebbiolo, ma anche scrigno di un Dolcetto speciale. Davide Rampello, curatore e direttore artistico Rampello & Partners oltre che protagonista della rubrica “Paesi, paesaggi…”, ci corregge subito: «Quarant’anni fa era proprio il Dolcetto il vino di quel territorio. La cosa rara è avere una vigna con viti così antiche, sopravvissute alla Filossera. La prima notizia meravigliosa è assaggiare il Dolcetto e scoprire che ha lo stesso sapore di allora, prima dell’innesto con la vite americana».
E l’altra notizia?
«Riguarda la cura, quella che i due fratelli Marchetti (Andrea ed Elisa) mettono per mantenere la vigna con tanti accorgimenti, perché la Filossera è sempre in agguato. Queste sono le cose che interessano di più, ecco perché appena ne ho avuto notizia ho deciso di dedicare una puntata di “Paesi, paesaggi…” a questo. Poi ho avuto la possibilità di assaggiare il vino e mi ha dato ragione, è davvero una cosa preziosa».
Come capita nelle crisi, fu anche un’occasione per nuove idee.
«Coinvolse la quasi totalità delle viti che, quindi, furono innestate con quella americana resistente alla malattia. Era solo la terra del Dolcetto, divenne anche patria del Barolo e del Barbaresco. I gusti mutano, influiscono le logiche economiche che valorizzano una cosa a dispetto dell’altra. Pensiamo a quanto poteva valere un quadro del Caravaggio ai primi del Novecento: forse meno di diecimila euro di oggi. Non fosse stato un signore geniale (il critico Roberto Longhi, ndr) che aveva intravisto in quei quadri una genialità straordinaria, oggi parleremmo di un’altra storia».
Con “Striscia” ha raccontato anche il Roccaverano Dop.
«Mi è piaciuto molto fare quella puntata. Nasce tutto da Wilma, deliziosa signora che riesce a mantenere alto il livello del formaggio, ma anche dell’allevamento delle sue pecore: le munge direttamente. Se usasse la mungitrice meccanica – perché lo ha provato – questo porterebbe malattie capaci di indebolire gli animali. Serve un grande lavoro e una produzione per forza di cose limitata. Ma così il prodotto è eccellente, come il racconto di questa formidabile persona e il suo modo di accudire le sue pecore. Ho poi chiuso il reportage parlando delle possibilità di elaborazione del formaggio. E c’è una trattoria di Olmo Gentile, nell’Astigiano, che prepara uno dei migliori polli alla cacciatora che abbia mai assaggiato».
Il 24 giugno sarà a Treiso per il Barbaresco “A Silvana”.
«Ma non per “Striscia,” vengo a presentare il piccolo libretto che il mio studio ha editato sul “Design della cura”. Ecco, i due che ho citato prima, sono esempi di design della cura. Sia la pastora e sia il vignaiolo hanno una visione della vita dove il prendersi cura è un sentimento molto potente».
Anche questo significa fare cultura?
«Spesso pensiamo che la cultura sia esercizio degli altri. Questa è una visione incolta della cultura. Bisogna rivolgersi al significato primo che ha generato questa parola, il verbo latino “colere”, che vuol dire coltivare. Perciò chi coltiva la terra, amandola e comprendendola, è il primo tra gli uomini che fa cultura. Se io coltivo un rapporto con una persona o la mia passione, questo è fare cultura. È coltivare la passione per la vita. Ci sono tanti che fanno esercizio di arti e non cultura, perché non lo fanno con la dovuta purezza d’animo».
La cura nel suo libro è rappresentata da una serie di dialoghi con personaggi famosi.
«Protagonisti del mondo del fare come Stefano Domenicali che è l’amministratore delegato della Formula Uno, una delle realtà più importanti al mondo, o come Giovanna Ferragamo che ha il cognome che la presenta. Tutti hanno in comune un atteggiamento, un senso del fare e del prendersi cura delle cose».
Questo è possibile di pari passo con il business?
«Il business della Formula Uno lo dimostra. Ferragamo è un marchio che lo fa capire. Non c’è contraddizione».
Lei ha detto che gli anniversari sono importanti per costruire una geografia della memoria.
«Per creare reti. Succede anche con i compleanni. Ripropongono ciò che è stato, tengono viva una geografia mentale e della memoria».
C’è qualcosa che in Italia accomuna i territori e le persone?
«Sì, la diversità. Alcune cose si stanno omologando, ma questa è la vera peculiarità».
Qual è il pericolo?
«Se si cancellano le diversità, si cancella anche la qualità. La mia definizione di qualità è la ricerca e la narrazione delle differenze».
C’è ancora un viaggio che vorrebbe fare?
«Ogni viaggio è uno strumento di conoscenza che riserva sorprese. La realtà è conseguenza delle scelte di persone che magari sono vissute 1000 anni fa. Pensi al Colosseo, è una conseguenza di una cultura e di migliaia di persone».