Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, è uno di quelli che ancora crede che il giornalismo debba essere uno strumento di democrazia, non di intrattenimento. In un’epoca in cui l’approfondimento è sempre più sacrificato sull’altare della velocità, della visibilità e del consenso, Report continua a indagare, scavare, raccontare ciò che altri preferiscono ignorare. Scomodo per definizione, il programma è spesso nel mirino di querele, pressioni, critiche e attacchi politici. Eppure resiste. E insiste. Oggi fare inchiesta significa prendersi dei rischi, spesso anche personali. Ma vuol dire anche mettere in discussione il racconto dominante, aprire varchi dove regna l’opacità, restituire ai cittadini il diritto di sapere. Non si tratta solo di denunciare: si tratta di illuminare. E farlo con metodo, con rigore, con fatti verificati. In un momento storico in cui le notizie durano quanto un clic, Ranucci – che domenica, ospite del Corriere di Carmagnola, presenterà il suo libro “La sfida” – difende il giornalismo che si prende tempo. Con lui abbiamo parlato di inchiesta, di libertà di stampa, dell’articolo 21 della nostra Costituzione in cui al secondo paragrafo è scritto: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, e di quel diritto all’informazione che, ogni giorno di più, sembra debba essere conquistato. Ne è uscita una conversazione franca, lucida, senza sconti. Perché raccontare la realtà, a volte, è l’atto più ribelle che resta.
Report continua a scavare dove altri si fermano: quanto è diventato scomodo oggi fare approfondimento in tv?
«Diciamo che è diventato anche un lusso poterlo fare. Nel senso che, un po’ per i costi e un po’ per la qualità dei giornalisti, sono sempre meno quelli che riescono a fare approfondimento, un valore aggiunto in un contesto dove c’è un flusso di notizie ininterrotto ed è difficile capire anche la ricaduta delle notizie sulla gente. Fermarsi un attimo a ragionare in profondità è una qualità che serve, insita nel giornalismo d’inchiesta. Sono sempre meno le persone che lo fanno e per questo va dato merito a Report di essere un format unico al mondo per qualità degli argomenti trattati».
Tutelare le fonti è sempre stato fondamentale, ma oggi come si fa davvero a proteggerle?
«Una volta che metti dei limiti all’informazione, per cui appare una serie di leggi che vanno verso l’oblio di Stato (impedire di fare i nomi delle ordinanze di custodia cautelare, il meccanismo dell’improcedibilità della legge Cartabia, celarti dietro delle sigle, quindi non essere identificato, il carcere per i giornalisti che danno notizie illecitamente raccolte, le querele temerarie… ) hai un controllo dell’informazione a monte attraverso gruppi sempre più omogenei ed omologati che gestiscono editori e informazione. La scheggia impazzita è proprio la fonte: un whistleblower, chi ha il coraggio di denunciare. A questo punto diventa l’unico obiettivo da colpire. E nonostante ci siano delle leggi che tutelano le fonti, mi sembra ci sia un meccanismo sempre più consolidato per cercare di arrivare alle fonti stesse cercando anche di delegittimarle. Per esempio la storia che riguarda Report e l’incontro di Renzi all’autogrill. Sono riusciti a raggiungere la fonte attraverso i tabulati telefonici. C’è sempre un modo per poterci arrivare. Questo, alla lunga, disincentiva a testimoniare e a denunciare».
L’articolo 21 della nostra Costituzione parla chiaro, ma nella realtà quanto è davvero rispettato il diritto a informare e a essere informati?
«Credo che in questo momento ci sia un problema di qualità dell’informazione, non tanto di libertà. Nel senso che è difficile in un contesto come questo essere censurati, perché le notizie in un modo o in un altro escono. Il problema è di fare informazione coerente, credibile, documentata, che venga percepita come tale in un contesto dove invece si deve fare lo slalom tra le fake news, dove c’è molta approssimazione, dove c’è un tentativo di inquinare le notizie. Chi dice che un’informazione, una notizia è doc? Oggi la maggior parte delle persone si informa sul web. È uno strumento grande di libertà, ma la visibilità è il criterio con cui viene spinta una notizia. L’algoritmo lavora sulla capacità di fare clic, non sulla verità della notizia. Questo è un problema serissimo».
Le pressioni arrivano più spesso dai palazzi del potere o da dentro le stesse redazioni?
«Le pressioni partono dall’alto e si infiltrano. E c’è sempre qualcuno a cui rimane il cerino in mano perché ha il compito di farle. Tuttavia al di là delle difficoltà, in Rai io mi sono sempre sentito libero».
Siamo al 49° posto nella classifica di Reporters Sans Frontières sulla libertà di stampa: è solo un numero o c’è qualcosa che non vogliamo vedere?
«Un dato di fatto, come dice l’associazione Ossigeno che monitora costantemente lo stato dell’informazione in Europa, indica l’Italia come il paese col più alto numero di giornalisti minacciati: 516, Minacciati sotto varie forme, dall’aggressione verbale alla querela temeraria. Poi abbiamo anche il record dei politici che denunciano i giornalisti. Io penso che questi siano sintomi molto brutti. In questo modo si spiega la classifica di Rsf».
Il giornalismo d’inchiesta dà fastidio o semplicemente non conviene più a chi detiene il potere?
«La politica ha sempre voluto che il giornalismo fosse la vetrina della politica stessa e del potere. Io invece credo che debba essere la finestra sul potere e sulla politica. Sotto la testata del Washington Post c’è scritto “La democrazia muore nell’oscurità”, anche se il Post ultimamente è cambiato con Bezos che ha licenziato giornalisti che volevano fare titoli critici nei confronti di Trump… così il Post ce lo siamo giocato… Insomma, il senso di quella frase è il senso del giornalismo d’inchiesta: illuminare le zone d’ombra».
C’è ancora spazio in Italia per chi vuole fare giornalismo d’approfondimento senza compromessi?
«Spazio ce n’è tantissimo, perché la realtà diventa sempre più variegata, poliedrica, quindi sicuramente c’è. Il problema è che bisogna vedere se questo spazio viene lasciato e se c’è la volontà degli editori di coprirlo con un’informazione di denuncia giornalistica. Perché poi le ricadute sono sempre tante: denunce, aggressioni, fatica. Insomma, sicuramente è un giornalismo che non conviene come impresa fine a sé stessa».