Conosco Lorenzo Rulfo da quando era poco più di un bambino. Prima di lui, nella mia vita c’era stata sua madre, Mariuccia: una donna straordinaria, giornalista curiosa, brillante, con la mente sempre accesa. Lavorare con lei, negli anni Ottanta e Novanta, era un privilegio. Erano tempi in cui la carta stampata aveva ancora un peso, un profumo, un’anima.
Lorenzo lo ricordo bene, con quell’energia irrequieta dei ragazzi che sembrano avere il mondo nel sangue. Sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcosa. All’inizio lo andai a fotografare a Saliceto, teneva dei corsi di teatro tra le colline dell’Alta Langa, dove il paesaggio ha un che di antico.
Poi la scrittura lo catturò. Era uno di quei giovani che non si accontentano, che si arrampicano – con ostinazione e curiosità – sulle pareti scivolose della cultura. Oggi ho tra le mani il suo ultimo libro. Uno dei protagonisti si chiama Leon. Viene da Palermo e, come tanti, cerca fortuna a Londra. Ama una donna, Sophie, enigmatica, sfuggente. È un libro che parla di ricerca, di assenze, di identità.
E la prima presentazione non poteva che tenersi nel loro locale ad Alba intitolato a Hemingway: un richiamo a un certo modo di intendere la scrittura, la vita, l’intensità. Sul palco, accanto a Lorenzo, ci sono due figure importanti: Giovanna Mezzogiorno – magnetica, intensa – e Pier Domenico Boccalario, amico e socio.
Durante la presentazione, mentre le parole scivolano tra i presenti, arriva una notizia: è stato eletto un nuovo Papa, Leone. Proprio come il protagonista del romanzo. Una coincidenza, certo, ma di quelle che lasciano il segno. Lorenzo prende la parola. La sua voce è calma, ma piena di pensieri in movimento. «Siamo sempre un po’ altrove – dice –. Quando ci cerchiamo, non siamo mai lì dove pensiamo di essere». E in effetti, è ciò che accade ai suoi personaggi. Ed è ciò che accade a chiunque provi a scrivere: si cerca un’idea, una storia, uno stile. Si cercano i personaggi, poi un lettore, un editore. Si cerca, sempre. E spesso, si cerca ciò che non esiste, ciò che è lontano. Altrove.
Leon arriva da Palermo. Perché proprio da lì? Forse perché, a volte, per crescere bisogna partire. Lasciare tutto. Il romanzo è pieno di domande. Le risposte, invece, sono rare. «L’altrove di Leon – continua Lorenzo – è anche il mio. È quello che ho vissuto mentre cercavo un modo per crescere. Scrivere un romanzo è stata una sfida, un desiderio, un viaggio».
Il libro avrebbe dovuto chiamarsi “Altrove”. Poi è diventato “Sophie”. Alla fine ha preso il titolo che porta oggi, forse il più bello, il più crudele e vero: “Finisce l’amore prima di cena”.
Il protagonista è un ragazzo di vent’anni. Confuso, fragile, affamato di senso. Di fronte a lui c’è Sophie, che cercherà per tutto il romanzo, senza mai davvero sapere cosa dirle. Ogni incontro con lei sembra l’ultimo, e questa incertezza gli apre dentro un vuoto che lo consuma. Quando gli chiedono se il libro sia autobiografico, Lorenzo sorride: «Sì, ma ho tolto tutte le parti noiose» risponde, citando Woody Allen. C’è qualcosa di strano e affascinante, in una storia dove accade poco ma si sente tutto. I personaggi vivono, respirano, si muovono tra le pieghe della vita, intrecciando le proprie esistenze in un groviglio di coincidenze, slanci, mancanze. È un libro che parla d’amore. Di quello assoluto. Di tutto il resto che spesso è solo vuoto, silenzio difficile da colmare. Durante la lettura di Giovanna Mezzogiorno – dolce, misurata, sussurrata – in sottofondo risuona il suono delle campane. Annunciano l’elezione del nuovo Papa, Leone. E di nuovo, tutto torna. La finzione e la realtà si guardano negli occhi per un istante.
E poi quella frase, quella visione che Lorenzo regala al pubblico: «Chi di noi non ha mai immaginato di avere una pistola puntata alla testa, e qualcuno che conta fino a dieci? E in quegli attimi, la vita che ti scorre davanti, fotogramma dopo fotogramma, attraversando tutte le crepe dei tuoi malesseri».
Bruno Murialdo