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«Dopo il mio libro ho fatto un cammino dentro ai conflitti»

Enrico Brizzi ha appena scritto il seguito di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: «Un anno fa, un bel giorno, ho letto la mia storia per la prima volta e subito dopo mi sono messo al computer»

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Camminare, vivere, scrivere. Tre azioni che scan­discono il percorso di Enrico Brizzi, scrittore che si rivelò al mondo quando non aveva ancora vent’anni con il suo romanzo generazionale “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”. E che, trent’anni dopo, presenta “Due”, il seguito di quella storia. Ne ha già parlato a Busca, lo farà anche domani a “Che­rasco Storie”.

Che rapporto ha con il Pie­monte?
«Ho una presenza ormai trentennale al Salone del libro di Torino. E già al vecchio Grinzane Cavour ricevetti un premio. Ma il Piemonte lo conosco soprattutto in quella che secondo me è la maniera migliore, cioè a piedi. L’ho attraversato la prima volta lungo la Via Francigena, en­trando dalla Valle d’Aosta e uscendo dal Vercellese. Poi come meta di un viaggio a piedi dal Lago di Garda a Torino passando per il Gran Paradiso. Mi è capitato anche di passarci per un servizio sulla Grande traversata delle Alpi, dallo spigolo con la Valle d’Aosta e la Francia, al Cuneese e alla Liguria. E sempre da Torino è partito il mio primo viaggio verso Santiago, scendendo dal Monginevro al Delfinato francese e verso la Spagna. Il mio Piemonte è tanti scenari diversi. È la portella alpina da cui vedi la Val Maira, è la cascina del mio amico vercellese che coltiva il riso, è la vita metropolitana di Torino e sono le piccole frazioni dove si parla occitano che puoi conoscere solo se ci arrivi a piedi, zaino in spalla».

Ne è rimasto affascinato?
«Molto. Da una decina d’anni ho una collaborazione con il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, ho creato per loro un viaggio pionieristico raccontato in un libro che si chiama “La via dei re”, da Agliè a Govone, da Ivrea ad Asti. Il Consorzio intanto ha attivato queste passeggiate in massa su singole tappe che ogni volta registrano migliaia di partecipanti».

Il cammino come fonte di massima ispirazione per uno scrittore?
«Io mi sento molto “stagionale” in questo senso. Lo dico con l’orgoglio del nipote di contadini. La vita è regolata a seconda delle stagioni, non fai mai gli stessi lavori a marzo e a ottobre. Sono bolognese ma da qualche anno vivo sul Lago di Como dove diciamo che ho un giardino abbastanza grande e so cosa vuol dire avere della terra. Scrivere e camminare sono lavori che si fanno in stagioni diverse e complementari. Cer­co sempre di partire per un viaggio a piedi quando ho appena consegnato un lavoro. La testa è piena di revisioni, punti e virgola, assonanze da evitare. Insomma, sono mesi che pensi alla rappresentazione grafica delle parole e al loro suono, e quando finisci è bello tornare “analfabeta”, riprendere lo zaino e sperimentare la stessa disciplina dei camminatori di mille anni fa o dei tuoi nonni».

Con quali sensazioni?
«Sigerico di Canterbury, l’uomo che ci ha lasciato il primo diario della Via Francigena, impiegò 80 giorni di cammino nell’anno 994 per arrivare da Canterbury a Roma. A me che nel 2006 ho seguito il suo stesso itinerario, attraversando evidentemente il Pie­monte, sono serviti 80 giorni di cammino. Senti l’ombra e l’eredità di chi è venuto prima di te, mentre vai al suo stesso passo. E in un giorno di cammino, hai un sacco di tempo per pensare. Rigeneri la mente».

Da soli o in compagnia?
«In compagnia alterni il mo­mento di racconto a quello dell’ascolto: è il senso vero del narrare. Non c’è narrazione, né quella dell’aedo dell’antica Grecia né dello spettacolo dei burattini in dialetto, che abbia senso senza un pubblico. In un Paese dove tutti vogliono pubblicare e pochi leggono, è importante ricordare che anche per chi ha avuto la ventura di vivere facendo il narratore, l’ascolto è una parte fondamentale. La lettura è fondamentale. Scri­vendo si mette a frutto un la­voro di ascolto di decenni».

Anche il nuovo libro, “Due”, arriva da un lungo percorso?
«Ci sono piante che sembrano morte e rifioriscono all’improvviso. Pubblicare “Jack Frusciante” quando non ave­vo ancora compiuto vent’anni, è stato come un sogno. Quella mia prima storia è uscita in 200 copie, 100 in libreria a Bologna e 100 in libreria ad Ancona, cioè la mia città e quella dell’editore. Per me andava già bene così. Dopo è successo di tutto, come trovarmi in treno di fronte a una ragazza che leggeva il mio libro pensando “speriamo che non lo butti dal finestrino sennò mi metto a piangere”».

Scrivere un libro di successo a quell’età lascia un marchio che condiziona la carriera?
«Non solo ti segna per tutta la carriera, la cosa incredibile è che ti crea una carriera. Io non avrei mai pensato di avere un contratto per fare un secondo libro che mi avrebbe permesso di andare a vivere fuori da casa dei miei. E a distanza di trent’anni questo mestiere un po’ fuori moda ma sempre affascinante agli occhi degli altri, mi ha permesso di tirare su quattro figlie, di cui tre ormai oltre i vent’anni».

Però dopo la storia di Jack Frusciante, lei ha preso altre strade.
«Perché mi interessava raccontare cose diverse. Firmi un libro di successo e l’editore ti chiede subito “fammi la seconda parte”. Mi sono sentito a un bivio. Ma tra gli autori che amavo nessuno ha mai scritto la seconda parte di un libro perché glielo chiedeva l’editore. E per 29 anni non ci ho pensato minimamente».

E poi?
«L’anno scorso, Dio solo sa perché, decido di leggere Jack per la prima volta e lo faccio in un giorno. Da pagina uno all’ultima. Mi sono spostato al computer e ho iniziato a scrivere il seguito come fosse la cosa più ovvia del mondo. Quando Sara, la donna che amo, è tornata a casa e mi ha detto “hai un’aria stranissima, cos’è successo?”, visto che ho abbastanza capelli grigi da sapere che è inutile mentire alle donne, gliel’ho dovuto spiegare».

Oggi si parla molto della condizione adolescenziale in una società complessa. Ne è stato influenzato scrivendo il se­guito della storia?
«Fatalmente un libro è stato scritto da un ragazzo di 19 anni e l’altro da un uomo di 49, sarebbe sciocco pensare che il narratore non abbia fatto un percorso di vita. A livello stilistico mi interessava usare la stessa voce e lo stesso timbro linguistico di allora. Mi sono basato di più su come ricordo io quell’età che non sugli adolescenti di oggi».

Quali differenza sostanziali tra una scrittura e l’altra?
«Ho sperimentato un lusso che non potevo avere a 19 anni: rileggere il testo con le mie figlie, le più grandi. In “Due” ci sono due voci, una dove il narratore è focalizzato sul vecchio Alex, l’altra sul diario di Adelaide dall’Ame­ri­ca. Sapesse quante volte le mie figlie mi hanno detto: “Ma questo una ragazza non lo penserebbe mai”. Così ho dato un senso a tutta questa scommessa narrativa, le mie figlie più grandi oggi hanno la stessa età che avevo io quando usciva il primo romanzo».

Ha già un nuovo cammino da affrontare?
«Sono appena tornato da un viaggio sulle antiche vie romane e di pellegrinaggio in Andalusia. E quest’inverno, a febbraio, ho fatto un bellissimo viaggio in Indocina: Vietnam, Cambogia e Laos sulle tracce di una storia di famiglia. Un mio zio aveva lavorato tutta la vita sulle navi da crociera e fece scalo a Saigon alla fine degli anni ’60 (si chiamava Ulisse Brizzi, proprio così, giuro…) e volle andare a vedere la guerra del Vietnam di cui parlavano tutti i telegiornali. Fece un viaggio assurdo verso la prima linea, dove ovviamente non arrivò mai. Il viaggio diventò molto avventuroso al ritorno, perché non lo lasciavano più passare e lui doveva tornare a imbarcarsi. Da bambino mi sono fatto raccontare mille volte la sua storia e a febbraio sono andato alla ricerca di quei luoghi».

E cosa ha visto?
«Posti straordinari per la natura e per la storia dolorosissima che hanno attraversato. In Cambogia è molto difficile incontrare una persona che abbia più di 50 anni. La guerra sterminò un terzo della popolazione, prima di 5 anni di dittatura nella seconda metà degli anni ’70».

E le guerre di oggi come incidono sul suo lavoro di scrittore?
«Da una parte come per tutti: sotto forma di ansia e incertezza. Io sono affascinato da tutte le culture del mondo, uno dei miei viaggi più toccanti è stato quello da Roma a Gerusalemme, cioè fino a Brindisi a piedi e poi su una barca a vela senza motore tra Grecia, Rodi, Cipro per riprendere il cammino in Terra Santa con altri 7-8 giorni fino a Gerusalemme. Lì arrivi e ti metti a piangere, che tu sia pro­fondamente religioso op­pure ateo. Capisci come ogni pietra sia sacra e al tempo stesso macchiata di sangue. Ma andare a piedi insegna una cosa fantastica. Tu sei forestiero dappertutto e la prima cosa che fai, quando il contadino ti guarda in cagnesco, è avvicinarti timidamente perché devi riempire la borraccia vuota da ore. E cosa fai? Alzi la mano destra col palmo aperto. La prima cosa per la pace è mostrare di avere idee di pace».

BaNNER
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