In Italia funziona così. Fino al mezzo secolo si è considerati giovani registi. Leonardo Lidi pertanto è regista giovanissimo. Trentasette anni e tre lustri di debutti. Evviva. Ma a parte le battute, Lidi ha davvero al suo attivo un curriculum non comune. Un esordio ufficiale con una trilogia dedicata a Natalia Ginzburg per il Teatro Stabile di Torino seguito dalla premiata regia di “Spettri” di Ibsen per la Biennale Venezia e poi Lorca, D’Annunzio, Strindberg e Cechov, con una trilogia che ha contemplato tre grandi classici – “Il gabbiano”, “Zio Vanja” e “Il giardino dei ciliegi”, recentemente trasmessa su Rai 5 e ancora Tennessee Williams, a cui è ritornato, dopo “Zoo di vetro “ con l’allestimento de “La gatta sul tetto che scotta”, che ha appena debuttato al Teatro Carignano.
Partiamo da questa “Gatta”, una versione dura e pura.
«La seconda versione della commedia, scritta da Williams per necessità. Perché sia il film sia le messe in scena avevano tradito la natura del testo, che stava diventando una storia d’amore che non doveva turbare la società iper tradizionalista del tempo, una società che non vuole fare i conti col progresso, con la complessità. Famiglia tradizionale, personaggi bidimensionali, dove c’è una padre padrone e un figlio forse omosessuale, ma della cui omosessualità non si deve parlare».
Anche la traduzione di Monica Capuani non cede agli eufemismi.
«Volevo questo, che il testo mantenesse tutta l’asprezza e la violenza della seconda versione, senza smussare gli spigoli e senza eufemismi, appunto. “La gatta” è stato fortemente frainteso e invece è bene che torni a parlarci attraverso la sua autentica versione».
I costumi di Aurora Damanti citano decisamente il cattivo gusto.
«Abbiamo fatto una ricerca mirata e siccome il padre ha forti assonanze con Trump i costumi sono ispirati al giorno dell’inaugurazione della Trump Tower».
Perché ha scelto proprio questo testo?
«Due anni fa lessi una dichiarazione di una senatrice della Repubblica in cui sosteneva che una donna deve sentirsi appagata solo se diventa madre. Mi venne da ridere, questi individui mi suscitano ilarità. “La gatta”, dove c’è una donna che finge di essere madre per assicurarsi l’eredità, era nel cassetto e questa dichiarazione ha fatto sì che la tirassi fuori».
È un po’ triste che queste questioni facciano di nuovo parte del dibattito pubblico.
«Sì ma se questo è il livello, tornare ai testi degli anni Cinquanta significa rispondere con la stessa provocazione che Williams doveva avere per difendersi dai suoi contemporanei».
C’è un forte legame tra questi personaggi al limite della macchietta e la menzogna che circola indisturbata.
«Il lavoro di regia è proprio rivolto al rapporto con la verità negata, che non si vuole affrontare. Williams introduce la verità come progresso e d’altra parte l’immobilismo della famiglia tradizionale, un monolite politico, prima di tutto, che deve essere ripreso per sostenerci nelle campagne elettorali. Un gran paradosso».
Allude alla difesa della famiglia tradizionale, cristiana e via dicendo e alla realtà quotidiana degli stessi difensori?
«Un paradosso. Politici che difendono la famiglia per prendere voti facendo leva sugli spiriti nostalgici ma poi anche per loro c’è la vita che va avanti a mille all’ora. Da una parte c’è l’immobilismo, non a caso qui c’è una gamba rotta, che non avanza, come in “Zoo di vetro” c’è la zoppia, e dall’altra c’è l’America del progresso e della velocità della Silicon Valley».
La protagonista de “La gatta” che si finge incinta per interesse è però un personaggio liminale.
«Un personaggio moderno che prima prova ad agire con sincerità poi, non riuscendoci, deride quel sistema e lo manipola. Ed è simpatica. Qualunque altra battuta detta da altri sarebbe antipatica».
Poi dette da Valentina Picello sono ancora più simpatiche, come sceglie gli attori?
«Valentina ha una grande empatia e le puoi credere. Per quanto riguarda gli attori lavoro con uno zoccolo duro che mi permette di mantenere una grammatica viva, perché con il nostro sistema teatrale non si può ripartire ogni volta da zero. Poi succede di aggiungere elementi nuovi come Fausto Cabra che qui fa Brick, di cui sono molto contento».
Perché scelse Orietta Notari per il ruolo di Sòrin, maschile, ne “Il gabbiano”?
«Perché volevo Orietta. Per me non è determinante il sesso per la scelta del personaggio, ma l’anima e Orietta rispecchiava bene la nostalgia, il senso di abbandono e il desiderio di restare legata agli altri».
Che cosa la induce a orientarsi su un testo?
«Scelgo un testo perché sento di avere una necessità, o perché da fuori mi arriva uno stimolo o perché mi sembra sia stato frainteso, come in questo caso».
Ha detto che “Spettri” di Ibsen è la sua bussola.
«L’Italia è piena di spettri, il teatro, la politica, la stampa. A differenza di altri paesi europei, l’Italia è abbarbicata su spettri del passato».
Mi spieghi meglio in che senso parla di spettri.
«A differenza del fantasma, che è attivo, lo spettro è riprodotto da noi che decidiamo di far rivivere parte del passato nel presente. Nei testi mi interessa il combattimento con gli spettri, dove gli spettri immobilizzano il presente. Non mi piace questa tendenza ad accontentare la nostalgia. Il teatro non deve fare rivivere ma vivere».
E come la mettiamo con la memoria, con la tradizione?
«La memoria è un trampolino per il futuro e la tradizione non è qualcosa che ci deve mangiare. Noi dobbiamo pensare ai vivi e fare in modo che il passato non ci sconfigga. Se faccio i classici è perché mi interessa tenere viva la memoria ma per il presente, con l’ambizione del futuro. Non si può restare chiusi in una regia anni Cinquanta. Se Williams vive nella contemporaneità se ne avverte la forza sennò diventa museale. E il teatro per me non è una scuola ma la ricreazione»
Alessandra Bernocco