«Basta con la vanità ora posso mostrare fragilità e paure»

Scrittore, scultore e alpinista, sabato a Mondovì racconta la libertà di essere sé stessi: «All’inizio volevo farmi vedere dopo una vita infame senza la carezza dei genitori. Con la scrittura ho mostrato i panni sporchi. Il documentario su di me? Non mi piaccio. Voglio bene a Bianca Berlinguer, non la tradirò mai»

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mauro corona mondovì

Spontaneo, crudo, reale, sincero. Mau­ro Corona lo prendi com’è e ne apprezzi la stoffa come quella un po’ ruvida delle vecchie coperte. Ma quando lui si racconta, allo stesso tempo diventa sensibile fino alle lacrime. Lo si vede nel docufilm “La mia vita fin che capita”, nelle sale italiane in questi giorni, per la regia di Niccolò Maria Pagani. Ci sono con lui Piero Pelù, Erri De Luca, Davide Van De Sfross. La voce narrante è di Giancarlo Giannini, le musiche di Omar Pedrini. E Mon­dadori in contemporanea ri­stampa il suo primo racconto “Il soffio del gallo forcello” arricchito dalle sue illustrazioni. Corona è a Mondovì sa­bato 17 maggio, alle 21, al Teatro Baretti, per la rassegna “Funamboli – Parole in equilibrio”.

Raccon­ta della libertà di essere sé stessi, una disciplina in cui non è secondo a nessuno.
Nel racconto si sente forte il richiamo alla montagna co­me luogo dell’anima. Qual è il “soffio” che manca oggi alla nostra società?
«Borges racconta la leggenda dell’uccello che vola all’indietro. Non gli interessa tanto dove sta andando a sbattere il becco. Lui vuole ricordare da dove è partito. Noi stiamo dimenticando che veniamo dalla terra. Bisognerebbe vi­vere nei boschi come me, con qualche puntata sociale tra la gente, che mi piace molto perché sono gente anch’io. Ma ogni tanto si deve ricordare questa provenienza. Nel no­stro inconscio abbiamo sempre l’idea della natura. Ma ormai è un inconscio allucinato e addormentato per la mo­neta, per il guadagno, co­stretti a seguire una linea imposta dalle multinazionali, dal mercato, dalla pubblicità».

Ogni settimana porta la voce delle montagne tra la gente, in mezzo al caos della tv. Cosa la spinge a non mollare tutto?
«All’inizio mi ha spinto una buona dose di vanità. Una voglia di farmi vedere. Di dire “guardate che ci sono an­ch’io” dopo una vita infame senza la carezza dei genitori, le botte, la fame. Poi è subentrata una cosa più importante: frequentare i salotti televisivi mi è servito per dare voce a chi non l’aveva e non aveva neanche un pertugio per farla sentire».

Il docufilm è un mix di legno, silenzi, parole, bevute che hanno il loro peso. C’è una scena che le ha fatto pensare “questa me la potevano ri­sparmiare”?
«Forse l’ultima. in cui si sente solo la voce. Dopo parecchie bottiglie ho buttato fuori il Corona provocatorio, spaccone, arrogante, maleducato, ac­cuminato. “Vi uccido tut­ti!”. Una chiusura che magari avrei evitato. Ma per il regista e gli sceneggiatori ci stava bene alla fine di un film di dolore, di rimorsi, di pentimenti».

Guardando “La mia vita fin che capita” ha mai pensato “Caspita, non mi conoscevo neanch’io così bene”?
«In verità il documentario, preferisco chiamarlo così, e non film perché sa di “bradpittismo”, non l’ho neanche visto. Perché non mi piaccio. Durante il montaggio l’ho osservato a spezzoni, senza il sonoro. E non sono andato neanche al cinema per la prima. Ho paura a vedermi e quindi non mi crogiolo nel successo. Per Pessoa il de­naro è un metallo, la gloria un’eco, l’amore un’ombra. Però se durante la nostra vita ci arrivano queste cose va be­nissimo, serve an­che per non prendersi troppo sul serio. Prima del documentario ho scritto “Le Altale­ne”, un libro che è il mio testamento. Per 75 anni ho sostenuto una recita, ma ora il sentiero si accorcia. In questo lavoro ho calato i pantaloni. Ho mostrato le mie paure, le angosce, le fragilità, i vizi, l’alcolismo. Ho chiarito chi sono. Lo dovevo ai miei figli, a chi mi è stato sempre vicino senza conoscermi davvero. Posso morire tranquillo. Ma solo fino a un certo punto. Perché la pace è degli inetti».

Con l’esperienza di oggi, se incontrasse il Mauro ventenne cosa gli direbbe?
«Gli direi “Sii naturale. Smettila di fare il buffone e di recitare una parte”. Come sostiene ancora Pessoa: “Con­tinua a rinverdire e ad essere naturale”».

Lei ha detto che la scrittura l’ha salvata. Ma scrive più per sfogarsi, per capirsi, per sé stesso o per chi la legge?
«Per Sàndor Màrai la scrittura è 80 per cento vanità e 20 per cento qualcuno che dentro ti suggerisce. Concordo con lui. Io mi racconto una storia che non ho mai letto e che non esiste. Quando scrivo io non esisto più. Mi siedo e “qualcuno” mi dice le cose. Mentre quando scalo o scolpisco non riesco ad uscire dai miei incubi. Per Artaud si scrive per uscire dall’inferno. Per Cechov perché si è sbattuto il naso contro la vita. Brod­skij vede nella scrittura un mo­do per salvare una civiltà personale, una cultura scomparsa. L’importante è scrivere con onestà. E non esiste una sola riga di cui mi vergogno. Per Wittgenstein su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere. Ma per tacere, bisogna prima aver parlato. Ci sono alcune verità familiari che, per quan­to dolorose, vanno esposte: le violenze di un padre, una madre picchiata fi­no al coma. Il coraggio di mostrare i panni sporchi lavati all’aperto può aiutare qualcun altro a resistere e agire».

Tra boschi e tv come convivono il Mauro solitario ed il Mauro pubblico?
«Faccio fatica, lo giuro. Vengo da Erto, il nome significa ripido, lontano dagli intellettuali di città. Ho fatto la terza media, ma ho cercato di imparare molto da Rudolf Steiner. Sento l’odore della gente, il male del mondo se lo sento lo vedo. Venendo dalla miseria, mi piaceva essere riconosciuto, noto».

Ecco la punta di vanità…
«Quella c’è sempre, ma ora sento di averne abbastanza. Faccio poche serate, quattro o cinque l’anno, invece di ogni settimana, evitando le notti sbronze che ora mi pesano. Dopo scalate e serate sul Va­jont, ho accumulato abbastanza bellezza, tranquillità e solitudine per fare il pavone senza drammi».

Un libro che avrebbe voluto scrivere?
«Sono due: “La pioggia gialla”, di Julio Llamazares, e “La pianura in fiamme” di Juan Rulfo. Non si può leggere Rulfo, raccontava Màrquez, senza rimanere annientati».

E da leggere?
«Di Peter Schellenbaum “La ferita dei non amati”. Non sarò mai felice. Mi è stata sottratta l’infanzia, un pezzo di pane, una carezza. Ho cercato di dimenticare, ma ogni notte tornano le angosce, le privazioni, i perché di ciò che ab­biamo vissuto, io e i miei fratelli».

Con Bianca Berlinguer ormai siete la strana coppia della tv. Qual è il vostro vero segreto, a parte l’ironia tagliente?
«Non c’è nessun segreto: gli ascolti salgono, quindi mi tiene lì. Con il mio carattere, mi avrebbero cacciato mille volte, ma anche questo fa ascolti. Le voglio bene, non la tradirò mai».

 

CHI È

Ha 75 anni, vive a Erto, 300 anime nella valle del Vajont. Scrittore, scultore, alpinista, conduttore tv. Figlio di commercianti ambulanti, nasce a 140 km da casa, a Baselga di Pinè, in Trentino, durante un mercato. Una polmonite quasi se lo porta via, riceve l’estrema unzione, ma il neonato è forte.

 

COSA HA FATTO

Scolpisce il legno, scala montagne, scrive libri. Una quarantina i titoli tra racconti, romanzi, poesie, fiabe e saggi. Vince il Premio Bancarella nel 2011 per “La fine del mondo storto”. Conquista anche il Premio Selezione Campiello 2014 e il Premio Rigoni Stern per “La voce degli uomini freddi”.

 

COSA FA

Nei cinema dall’inizio di maggio il docufilm “La mia vita finché capita”, prodotto da Ushuaia e distribuito da Wanted. Sempre in questi giorni Mondadori ripropone “Il soffio del gallo forcello”, una ristampa della prima raccolta di racconti, arricchita da illustrazioni disegnate dallo stesso Corona.