Il curriculum della senatrice Elena Cattaneo è eloquente: professoressa di Farmacologia all’Università di Milano, dirige il Laboratorio di biologia delle cellule staminali e farmacologia delle malattie neurodegenerative. Nel 2013 è stata nominata Senatore a vita dal presidente Giorgio Napolitano, terza donna dopo Camilla Ravera e Rita Levi-Montalcini. Domani sera (venerdì, ore 21) è attesa al Sociale di Alba per “Profondo Umano”, parlerà anche del suo saggio “Scienziate, Storie di vita e di ricerca” (editore Cortina).
Senatrice, a che punto è il contributo femminile nella ricerca scientifica? Gli stereotipi pesano ancora?
«Il contributo delle donne nella scienza è sempre stato enorme anche se, fino a poco tempo fa, per lo più ignorato. Oggi è in atto una rincorsa nella scienza come in altri ambiti ma pesano ancora, come una zavorra, gli stereotipi che hanno tenuto le donne lontane dalla vita pubblica e dallo studio, caricandole dell’aspettativa che restassero confinate alla cura della casa, della famiglia, delle persone più fragili. Stereotipi che facciamo ancora fatica a riconoscere: siamo spesso veicolo di schemi sociali anche se non consapevoli. Gli studi sul gender gap economico, scientifico e sociale si stanno moltiplicando ed è un bene perché la scienza è un alleato fondamentale del percorso di presa di coscienza collettiva, presupposto della piena emancipazione».
Quale ruolo può avere il suo esempio nei confronti dei giovani?
«Come racconto in “Scienziate”, sono stata la prima laureata della mia genealogia, sono professore dell’Università Statale di Milano, dirigo un laboratorio di ricerca in cui lavoriamo in 25, sono Senatrice a vita. Se c’è qualcosa che i giovani possono imparare dalla mia esperienza è che “si può fare”, si può inseguire un sogno anche se sembra molto lontano dal nostro punto di partenza. E si può continuare ad amarlo anche dopo 30 e più anni. In generale, il messaggio che vorrei arrivasse ai giovani è che nessuna strada è preclusa e che non esistono “cornici” in cui far rientrare i loro progetti. Senza mai dimenticare che alla libertà di esprimere sé stessi in qualunque campo e di puntare al massimo corrisponde la responsabilità di ognuno a impegnarsi per realizzare quel che si desidera, senza paura di sbagliare e di ricominciare».
Tra le tante storie interessanti che ha raccontato nel libro, c’è il viaggio di Catalina Curceanu dalla Romania del conte Dracula all’Italia, per la scienza quantistica…
«Nella storia di Catalina, rispetto alle altre, c’è il tema dell’accoglienza, della possibilità di studiare e fare scienza senza confini, della forza di un Paese di attrarre talenti offrendo infrastrutture e spazi per realizzarsi. Il campo di studio di Catalina è fra i più distanti dal mio, e questo mi ha attirato fin dalla prima volta in cui l’ho ascoltata in un incontro di divulgazione. Più le storie di scienza si distanziano da ciò che conosco, più la mia curiosità si accende. Come ripeto spesso, ringrazio ogni scienziata e scienziato che dedica la propria vita a comprendere ciò che per me risulterebbe incomprensibile o che, senza di loro, non potrei mai conoscere. È questa la forza della scienza: milioni di menti che si pongono domande su cose che noi neanche immaginiamo esistano, ma la cui conoscenza diventa necessaria per il progresso e il benessere generale».
Come è stato invece il suo percorso professionale?
«Non sono cresciuta con l’idea di fare la scienziata, ma ho seguito le diverse scintille che si sono accese sul mio cammino. Ricordo che il professore di Chimica dell’Università, al momento di scegliere l’argomento della tesi, ci consigliò di valutare la possibilità di un percorso sperimentale. Non mi feci sfuggire quell’opportunità e cercai un’azienda farmaceutica disponibile a ospitarmi. Lì c’era un grande plotter che durante la notte elaborava i dati degli esperimenti che facevo di giorno e li stampava su fogli enormi. Quei numeri indicavano la quantità di recettori nel cervello stimolati dal farmaco che stavo studiando: mi facevano “vedere” entità invisibili. Compresi che la mia strada non poteva che essere quella della scienza e della ricerca. Qualche anno più tardi mi trasferii per tre anni al Mit di Boston per lavorare nel laboratorio di Ron McKay, fra i primi a studiare le potenzialità delle cellule staminali e feci un altro incontro fondamentale con la genetista americana Nancy Wexler, fra le prime a studiare la malattia di Huntington. Fu un altro colpo di fulmine: la sua storia mi aiutò a comprendere l’importanza dell’aspetto umanitario della ricerca, il suo ruolo sociale».
Abbiamo letto che sulla Còrea di Huntington lei ha evidenziato sviluppi interessanti…
«Sono le attuali sperimentazioni cliniche di trapianto di cellule staminali in malati di Parkinson. Negli ultimi 16 anni, con il nostro laboratorio dell’Università Statale di Milano, abbiamo coordinato tre consorzi scientifici finanziati dall’Unione europea per gli studi che hanno permesso di mettere a punto la prima sperimentazione del genere in Europa. Ci sono anche colleghi americani con cui collaboriamo che hanno una sperimentazione simile in corso. Servirà ancora tempo, ma se questa strategia risultasse vincente, si aprirebbero nuove prospettive anche per altre malattie neurodegenerative».
Recentemente ha parlato di Europa baluardo della conoscenza.
«La scienza, per definizione, è libera e senza confini. Considero L’Europa il nostro spazio minimo di studio e di confronto, un luogo aperto all’innovazione che rende possibile la condivisione di idee, competenze e traiettorie in modo trasparente, libero e inclusivo, in cui immaginare prospettive di sviluppo e crescita per il futuro della scienza, dell’economia e della società. Senza l’Unione europea non saremmo mai arrivati al traguardo straordinario delle sperimentazioni per il Parkinson. Per questo, credo sia sempre più opportuna una riflessione comunitaria volta a realizzare, con forza e risorse, la “quinta libertà” di circolazione della conoscenza che Enrico Letta aveva proposto nel suo rapporto sul mercato unico europeo del 2024. Dopotutto, si tratta di dare forma e riconoscimento a un’espressione che è già nella nostra cultura di collaborazione senza confini. Questa riflessione, inoltre, trova maggiore solidità alla luce del contesto internazionale che, invertendo un flusso in atto dal secondo dopoguerra, potrebbe fare dell’Europa il luogo geografico e politico a cui i colleghi d’oltreoceano possano guardare per sviluppare in piena libertà le loro ricerche».