«Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire».
Era il 1° marzo 1954. Luigi Einaudi continuava a coltivare il sogno di un continente europeo unito, un sogno avviato ufficialmente nel 1941 con l’adesione al “Manifesto di Ventotene”, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi durante il confino sull’omonima isola, uno dei documenti fondamentali dell’europeismo. Il titolo completo è “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Negli anni dell’esilio svizzero einaudiano, la corrispondenza con Rossi e Spinelli rivela la cura con cui il futuro presidente studia le misure istituzionali d’emergenza da adottare al ritorno in Italia per non essere sopraffatti dall’anarchia: «Fare un piano, tutti sono buoni a farlo. Preparare gli uomini che lo elaborino, attraverso la loro esperienza, è più difficile». Imparare dall’esperienza; «epperciò escludere coloro che sanno già tutto, mentre non sanno niente; come del resto non so niente io e sanno poco o niente tutti i politici, anche volenterosi».
Un attacco da storico perché, a ottant’anni dalla Liberazione, la storia pare lontana, annebbiata. Quel fermento oggi è divenuto sbiadito ricordo, nella maggioranza dei casi tramandato per “sentito dire”. La tradizione orale dei nostri nonni, con il “nostri” riferito a coloro che rappresentano la generazione dei “millennials”, non esiste più. Sono pochi i giovani che realmente studiano e si documentano sui fatti, non sulle posizioni, di quel 25 aprile 1945.
Fatti voluti da una generazione di eroi che aveva combattuto, che aveva continuato a sognare nonostante il fragore delle bombe un’Italia libera e un’Europa Unita. Una stagione di grandi pensatori e visionari, tra cui spicca la figura di Luigi Einaudi, ben radicata nella terra di Langa, in particolare tra le mura di “Villa San Giacomo”, sulle colline di Dogliani.
La giornata è piovosa, dal sapore di una primavera autunnale, lo scoppiettio del camino intermezza le parole. Roberta Einaudi, nipote del primo presidente eletto della Repubblica italiana, scorre le dita sulle righe del “Carteggio” tra il nonno e Ernesto Rossi, in un certo senso suo allievo, anche se il loro rapporto fu più intellettuale e politico che accademico in senso stretto. Lei, con i suoi vispi occhi azzurri, ben ricorda quei lontani giorni. La famiglia divisa tra esili e sfollamenti. «Pensi che se questa casa non è stata bruciata dai tedeschi lo si deve alla cultura». La mia curiosità, ovviamente, aumenta. «Qui a San Giacomo vi erano solo donne, a partire dalla zia Maria, detta “mes’etu” (mezzo etto) per la sua minuta fisicità. Tra queste mura trovavano rifugio i partigiani e i soldati tedeschi vennero con l’intento di appiccare il fuoco. Nel giardino, richiamato dagli schiamazzi, scese lo zio Renato, professore di matematica, con sotto il braccio un libro. Conosceva la lingua e parlando con l’ufficiale scoprì un’assonanza: entrambi erano professori e il libro che lo zio stava studiando era di un docente universitario che aveva insegnato proprio all’ufficiale».
Per contestualizzare: “zio” Renato fu fondatore e direttore del Collegio Universitario di Torino. Ente nato e cresciuto proprio grazie alla sua capacità di visione e grazie ai valori in cui credeva e sui quali si fonda ancora oggi la mission dell’odierna Fondazione: la centralità della persona, la laicità, il merito, l’apertura alla società civile, l’interculturalità e la sostenibilità. Tornando ai fatti: dall’incontro tra professore e ufficiale nacque un colloquio e la decisione di soprassedere alle “brutte” intenzioni. «I soldati regalarono alle mie cugine delle caramelle. Usciti di casa la zia Maria le riprese dalle piccole mani dicendo: “le caramelle dei tedeschi non si mangiano”».
Piccole note di quotidianità che raccontano la guerra attraverso gli occhi dei bambini, ieri come oggi. Luigi Einaudi è stato Governatore della Banca d’Italia, senatore e membro della Costituente, ma la sera: «si sedeva a terra negli ampi saloni del Quirinale e giocava con noi. Paola e io adoravamo quei momenti intimi, fatti di giochi e lezioni. Poi si metteva abiti eleganti e usciva per conferire con il Re (prima del referendum, ndr) o per andare in Parlamento. Ruoli che tra le mura di casa non venivano mai percepiti. Noi al mattino uscivamo dal palazzo e ci recavamo a scuola, scendendo le scalinate romane e percorrendo le vie storiche. Una vita serena e spensierata. Poi la domenica uscivamo spesso per una gita nella campagna, da Caprarola a Velletri, luoghi prediletti dal nonno per incontri con i principali amici e consiglieri, tra cui spiccavano proprio Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi».
L’idea di colloquiare con la signora Roberta nasce proprio dall’incontro che la biblioteca civica Einaudi ha organizzato per presentare il libro “Luigi Einaudi, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico”. Un pomeriggio rivelatorio. Dalle mani screpolate di Donna Ida, riflesso delle giornate dedicate al giardinaggio e alla cura dell’orto, alle passeggiate solitarie del presidente per le vie del borgo attorno a Palazzo Farnese. «Il nonno si confondeva tra la gente, spesso non lo riconoscevano. In un’occasione gli venne anche lasciata in custodia una scala. Lui era seduto su un muretto a leggere. Il paesano venne redarguito: “Non sai chi è?”».
Nell’edificio doglianese, firmato dall’architetto Zevi, tra i racconti della cura e del rispetto per i beni, ecco la rivelazione, inattesa, segnale che per comprendere e capire la storia occorre il dialogo. Da un lato Anna Paolelli, curatrice dell’edizione: «Non siamo riusciti a capire dai nostri studi come Einaudi sia intervenuto nell’opera di tutela del castello di Serralunga». «Ve lo spiego io – interrompe la signora Roberta –. Quando il nonno ricevette il primo stipendio da senatore disse: “Lo Stato mi paga già come professore, non voglio accettarli”. Una deroga non ammissibile, quindi fece un conto corrente apposito: “Se lo Stato ne avrà bisogno li restituirò”. Per questo, anni dopo, acquistò il castello di Serralunga da privati per poi ricederlo allo Stato, sotto la gestione e la tutela diretta del Ministero dei Beni Culturali».
Nel momento del bisogno, il presidente ha mantenuto la parola. Oggi Serralunga d’Alba è un borgo interamente preservato. Fatti indelebili e riservati. Parole che spesso si affiancano nelle storie degli uomini di Langa. Per questo appassionarsi al nostro passato può far comprendere le ragioni del presente. Sempre Einaudi scrisse: «Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente per impedire l’unione, facendo cadere gli uni nell’orbita nord-americana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica». Era sempre il 1954.
La signora Roberta intanto ha un impegno per il 25 aprile: «Sarò a Milano, devo andare a marciare in piazza».