Cristiano Godano probabilmente non disfa neanche il trolley. Arriva. Riparte. Ma quando si deve rigenerare, o deve fare una sosta, non c’è niente di meglio che casa sua, nel centro di Cuneo.
La settimana scorsa è uscito il suo secondo album da solista. Si intitola “Stammi accanto” (etichetta Al-Kemi Records di Ala Bianca Group, la factory dei successi targati Toni Verona). L’8 aprile esordio del tour al Monk di Roma. Poi altre quattro date concentrate: Verona, Bologna, Milano Torino. Se lo volete sentire in Piemonte l’appuntamento è il 17 aprile all’Hiroshima Mon Amour. Biglietti su Kashmirmusic.it e Vivaticket.com.
Il disco, anche in vinile, contiene otto brani. In “Dentro la ferita” canta anche Samuele Bersani.
Non si ferma mai…
«Parto, ritorno. Ho perso anche un po’ il senso del tempo, non so quanto mi fermo a Cuneo. Sono molto trottoloso in questo periodo».
Ha molta carne al fuoco…
«Sì, è vero. Preferisco così. La mia zona di comfort è quella in cui mi sento adrenaliticamente coinvolto».
Sembra molto legato alla sua terra di origine, non l’abbandona, ci ritorna. Quanto ha influito sulla sua visione artistica?
«Le contingenze, motivi pratici hanno fatto sì che io non mi sia spostato da Cuneo. Per esempio i Marlene hanno sempre avuto la sala prove qui. Ma c’è anche un’attrazione della montagna, piuttosto che il mare, anche se poetico e dispensatore di emozioni, che esercita su di me un grande fascino. Stare a Cuneo con le sua montagne mi è congeniale e mi ispira. Per questo abbiamo registrato in un paesaggio quasi sperduto sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove si trova lo studio PlaTone di Luca Rossi, frontman degli Üstmamò, che ha prodotto con me il nuovo lavoro».
L’album è stato registrato nel 2022, un periodo drammatico per la vicenda della pandemia. Dopo averlo ascoltato e visto quel momento possiamo definire “Stammi accanto” un album di resistenza, una sorta di autodifesa verso cosa stava accadendo?
«Che sia chiaro: questo disco non ha a che fare col Covid, non viene neanche lontanamente menzionato. Ma ovviamente ne è coevo, quindi è figlio di un periodo dove l’umanità era frastornata. Tutto il percorso dei Marlene Kuntz è sempre stato ed è un atto di resistenza. Quello che noi facciamo musicalmente ha una sua purezza e una sua onestà intellettuale che si ripercuote disco dopo disco. In fondo, non essendo noi né naif, né degli sprovveduti, cerchiamo sempre di privilegiare la dimensione artistica, molto prima di qualsiasi malizia nelle produzioni dei pezzi per fare in modo che siano ammiccanti o che possano avere il suono giusto. Considerando la pessima direzione che sta prendendo la musica, dove prevalgono le regole di internet e adesso dell’intelligenza artificiale, fare dischi come dico io sono sempre più atti di resistenza».
Essendo il mondo in quei mesi in un contesto drammatico ha deciso di non pubblicare subito l’album.
«Quando l’ho congelato sentivo che l’umanità stava facendo uno switch. Il desiderio generale delle persone era uscire dall’incubo perché a nessuno piaceva cosa stava accadendo. L’autoconvincimento più diffuso (Andrà tutto bene) tentava di insinuarsi in tutti noi provando a far risvegliare positività, vitalità e forza d’animo. Il mio disco, con la sua bella dose di riflessività, era invece figlio di un sentimento sfibrato: per questo mi sembrava mal conciliarsi con le energie della rinascita. Il contesto sociale cercava le vie dell’incisività fisica e mentale bandendo tutta la debolezza vissuta, e in “Stammi accanto” quella debolezza era invece costante presenza nei suoi risvolti poetici e intimi, due fra le caratteristiche principali del disco. Ho quindi deciso di congelarne l’uscita».
Però non è che adesso il contesto sia migliorato. Allora la pandemia, ora venti di guerra.
«Un anno e mezzo fa un riascolto attento mi ha permesso di avere una diversa chiave di lettura: il contesto sociale è nuovamente sfibrato, estenuato, impaurito, incredulo per tutto quello che sta accadendo, fantasmi della guerra inclusi, e la dignitosa vulnerabilità di “Stammi accanto” torna a sembrarmi plausibile e adeguata. Servono il coraggio della fragilità e della sensibilità, serve non aver paura di riconoscersi deboli e impauriti, serve tenere in vita la speranza dopo aver preso consapevolezza che in sua assenza ci ritroveremmo immobili e irrigiditi nell’angoscia. Ho quindi deciso di scongelare l’uscita, ed eccoci qua».
Dice della vulnerabilità, ma forse è nuovamente un concetto che nell’immaginario collettivo sta diventando desueto.
«Probabilmente io non potrei lavorare in America perché la parola “vulnerabilità” è una di quelle che sono state bandite da Trump e che non possono essere usate. Vorrei che la gente si rendesse conto del dramma in atto, di un regime che impone quello che si può fare e quello che non si può».
“Eppure so che devo continuare a sognare e sperare e inventare il meglio per noi. Eppure so che devo continuare a cercare poesia e bellezza per noi”. Quindi c’è anche una canzone della speranza…
«Assolutamente sì».