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«Aver vissuto la terra mi ha fatto diventare il politico che sono»

«Nel mio libro scrivo della “puzza del letame” che mi ha insegnato tanto... Penso ogni giorno alla “famiglia della Difesa” e a come aiutarla e sostenerla»

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Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, consegna a IDEA alcune riflessioni che partono dal suo libro “Storie di un ragazzo di provincia” (Piemme) e toccano tutti gli ambiti di una vita e di una carriera.

Ministro, la sua propensione po­litica per il pragmatismo rispetto all’ideologia nasce dall’esperienza fatta sul territorio?
«In queste settimane, cioè da quando è uscito il mio libro, mi ha colpito che i più grandi giornali italiani – dal Corriere della Sera a La Stampa, passando per Repubblica – abbiano trovato molta curiosità e interesse per un capitolo, il primo, che s’intitola “Mio padre, le macchine agricole Crosetto e la puzza che fa il letame”. Forse perché per un certo modo di fare e di essere del giornalismo italiano ­– cresciuto rigorosamente nel­le grandi città e un po’ snob quando ci si riferisce alla provincia – parlare di letame, di puzza, o di macchine agricole, per non dire della terra, è una sorta di scoperta dell’A­merica. Per loro è un mondo sconosciuto, lontano, quasi mitico, forse mai esistito… Solo chi, come noi – cioè come me, la mia famiglia, i vostri affezionati lettori – ha vissuto, in modo silenzioso, fattivo, operoso, con decoro e dignità, la “fatica” del lavoro, specie di quello contadino, non si stupisce. E il “letame”, alla famiglia Crosetto, che produceva e produce macchine agricole da oltre un secolo, cioè da ben prima dell’Agrimec, ci dava da mangiare ed eravamo abituati a rispettarlo, e a onorarlo, sempre, di nostro, per scelta di vita.
Ecco, se devo definire il “pragmatismo”, come dice Lei, che mi ha sempre contraddistinto, rispetto a quelli che vengono definiti politici di professione, è che ho dovuto sudare il sudore della fronte, lottare per tenere in piedi le aziende, vendere, comprare, incassare. Conosco il dramma delle ricevute insolute o le discussioni con le banche, come il valore del lavoro dei collaboratori, che poi sono il motore di ogni azienda. L’ho imparato prima da mio padre, poi dal lavoro degli imprenditori, degli operai, delle persone anziane e delle casalinghe, dei giovani non istruiti e di coloro che volevano istruirsi. E, an­che, dalla nostra terra».

Il Cuneese ha dato grandi personaggi alla politica italiana, esiste una base culturale comune?
«Sì, c’è. Abbiamo avuto grandi e illustri figure nel passato lontano, quello piemontese e sabaudo, come in quello più recente, repubblicano, democratico e con­temporaneo. Figure che hanno illuminato la storia del Risorgimento, della Resistenza, la vita politica del Regno d’Italia come dell’Italia repubblicana. Po­litici, però, e non solo. Anche imprenditori, giornalisti, scrittori, letterati, artisti. Credo che la base culturale comune sia sempre la stessa. La “terra”. Del resto, se posso permettermi un senso di orgoglio di chi lì è nato, la provincia si chiama “Pro­vincia Granda”».

Che cosa resta dell’esperienza vissuta da sindaco di Marene?
«L’amore, il rispetto e la dedizione verso misure, scelte, politiche, indirizzi pratici e programmatici concreti. Berlusco­ni la chiamava “la politica del fare”. Altri dicevano che serve “mettere l’orecchio a terra” per ascoltare la gente. A me è sempre venuto facile farlo. Per educazione familiare come per tradizione politica. Vorrei dire per scelta di vita. Un’altra lezione “pragmatica” è stata, per me, quella da sindaco, di un piccolo comune che voi conoscete, Marene. Quando, in un piccolo paese, fai il sindaco, e lo fai per ben tre mandati, devi rispondere del tuo operato a tutti. E quando dico tutti, intendo tutti. Le persone che ti conoscono da una vita e quelle che incontri la prima volta. Dove abita il sindaco, in un piccolo paese, lo sanno tutti. Ognuno ha le sue storie, i suoi problemi, i suoi guai, ma anche le sue ricchezze. Loro ti rispettano, tu devi ri­spettare loro. Sempre, ogni giorno. Una fatica e una gioia insieme».

L’aneddoto del vecchietto che, il giorno dopo la sua elezione, la saluta al bar togliendosi il cappello, quanto è significativo per la sua esperienza?
«Già, il Balari! Un arzillo vecchietto che sedeva al bar del paese, tutti i giorni, con il suo “pintun” di vino accanto! E non si toglieva mai il suo cappello, neppure dentro il bar. Ebbene, quando entro nel bar, non più come Guido, che lui conosceva benissimo, ma come sindaco, se lo toglie. Io, sulle prime, resto di stucco, poi però capisco il suo gesto. Un gesto di fiducia, rispetto, decoro, che però va ripagato. Guai dimenticarsene! La fiducia e il rispetto delle persone semplici, specialmente il loro, te lo devi conquistare. Se il Balari, come racconto, si alza dal tavolino del bar, e si toglie il cappello per salutarmi, anche se ti conosce da quando eri bambino, è perché sei sindaco e si aspetta, da te, onori e oneri. Devi saper ripagare la fiducia sua e degli altri. Una lezione che mi sono portato sempre, in tutta la mia carriera, di imprenditore e poi di uomo politico».

La dimensione umana e familiare, quanto e come riesce a co­niugarla con l’attività politica?
«È faticoso, prima ancora che riuscirci, provarci… Eppure, tut­ti i giorni, ci provo. Per me, la famiglia è tutto. Difendo il mio Paese come se difendessi la mia famiglia: con forza, tigna, caparbietà, senso del dovere, coraggio. I miei figli, e mia moglie, soffrono del tempo che rubo loro. Io lo so, loro lo sanno, che lo faccio per un Bene più grande ma non è facile. A Natale, mio figlio, il più piccolo, mi ha chiesto, come regalo, di rivedere il sorriso sulle mie labbra. Mi ha fatto molto male sentirlo. Non è facile sorridere, di questi tempi. Ma lo dobbiamo a loro, ai nostri figli. Dobbiamo istillare un sen­so di serenità e, insieme, di forza. Per assicurare loro – ai miei figli come a quelli altrui, a tutti – un futuro degno di essere vissuto, dobbiamo dire: “Noi ci credevamo” e “noi ci crediamo”. Lo faccio per tutti loro».

Che cosa significa essere Mi­nistro della Difesa oggi, in questo contesto internazionale?
«Beh, direi una bugia se affermassi che è un lavoro normale. Viviamo, come voi ben sapete, in un mondo difficile, attraversato da mille tensioni, guerre, conflitti, problemi. Io sono una persona schiva, lavoro in silenzio, moltissime ore, concedo poche interviste, non amo le luci della ribalta. Ma il mio cruccio più grande, ogni giorno, è – ovviamente – rispondere alla domanda: “Cosa ho fatto, oggi, per il mio Paese, la mia Na­zione, l’Italia?”. E, insieme, c’è il pensiero fisso di sapere che tutti gli appartenenti alle Forze Armate sono in buona salute, lavorano in sicurezza, possono cioè proteggere gli altri perché sono protetti e si proteggono. Quando dico che, noi della Di­fesa, siamo una famiglia, la famiglia della Difesa, intendo proprio questo e lo dico privo di alcun intento o espediente retorico. Ogni giorno, so che devo pensare io ai soldati, marinai, avieri, carabinieri che ogni giorno devono pensare a difendere il nostro Paese e renderlo sicuro e sereno per la vita dei nostri cittadini, in Italia e all’Estero. Se hanno problemi, se stanno ma­le, se sono in pericolo o rischiano la vita, vivo le loro difficoltà e, come un padre, cerco di fare di tutto per aiutarli e sostenerli perché, appunto, siamo una famiglia. E ne vado orgoglioso».

BaNNER
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