La guerra soffoca la voce. Un bombardamento, un colpo di mortaio, il frastuono delle sirene: suoni che sovrastano le parole e annullano il racconto. Ma chi assiste, chi resta, chi cura, ha il dovere di farsi testimone. Martina Marchiò, infermiera e coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere, non si è mai tirata indietro. Dal 2017 lavora in prima linea nei contesti più drammatici: Gaza, Mozambico, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo. Ad aprile e maggio 2024 è stata nella Striscia di Gaza, esperienza che ha raccontato nel libro “Brucia anche l’umanità. Diario di un’infermiera a Gaza” (Infinito Edizioni). Nei giorni scorsi ha portato la sua testimonianza ad Alba in un incontro organizzato dal Comune e dall’Ufficio della Pace, raccontando il dramma di una popolazione stremata e la difficoltà di portare aiuti. Attraverso il suo profilo Instagram, continua a raccontare la realtà dei conflitti dimenticati, usando i social per portare visibilità a crisi umanitarie spesso trascurate dai media.
Lei è tornata da poco dalla Repubblica Democratica del Congo, ma prima ancora ha vissuto due mesi a Gaza. Cosa significa essere in prima linea in un contesto simile?
«Gaza è stata l’esperienza più dura di questi otto anni. È un luogo dove le regole basilari del diritto umanitario internazionale non vengono rispettate. Gli operatori sanitari sono diventati un target: nei mesi scorsi sono morti nove colleghi di Medici Senza Frontiere e molti altri di altre organizzazioni. Ambulanze, ospedali e cliniche sono stati colpiti, i medici arrestati. Lavorare in un posto così significa svegliarsi ogni giorno senza sapere cosa accadrà: dove spostare una clinica mobile, come salvare un ambulatorio, se riusciremo a ricevere rifornimenti. Dal 6 maggio 2024 il confine è stato chiuso e da allora, a intermittenza, non entrava più nulla: né carburante per i generatori, né cibo, né medicinali».
Uno scenario apocalittico.
«Senza antibiotici, antidolorifici, garze, siamo costretti a scelte disumane: chi può essere operato, chi non ha speranza. Questo significa decidere, in pochi secondi, se un bambino con un arto lacerato potrà essere operato o se il materiale medico rimasto andrà a qualcun altro con maggiori possibilità di sopravvivenza. Non avevo mai visto così tanti pazienti amputati: si parla di una media di dieci minori al giorno che perdono gli arti. Alcuni erano vittime di bombardamenti, altri di ordigni inesplosi: circa il 10% delle bombe non detona subito, lasciando mine mortali disseminate ovunque. Ho visto intere famiglie distrutte da un solo passo nel posto sbagliato».
Cosa ricorda della sua esperienza?
«Bisognava anche cambiare strategia in corsa: un ospedale che fino al giorno prima accoglieva i feriti poteva essere evacuato in poche ore per evitare che diventasse un bersaglio. E questo significava spostare, in condizioni precarie, pazienti in condizioni critiche. Ogni scelta era un compromesso tra sopravvivere e cercare di garantire cure umane. E poi ci sono quelli che gli arti li conservano, ma hanno bisogno di un supporto psicologico che non c’è».
La sua missione non è solo curare, ma anche testimoniare.
«I media accendono i riflettori solo nei primi mesi di un conflitto, poi sembra che tutto si spenga. Ma la guerra continua. Oggi a Gaza il confine è chiuso da dieci giorni e se ne parla pochissimo. Gli aiuti umanitari vengono usati come arma di guerra: la gente muore non solo per le bombe, ma anche per la fame, per la mancanza di cure. Anche in Cisgiordania la situazione è gravissima: dall’inizio dell’operazione “Muro di ferro”, a gennaio 2025, ci sono stati 40mila sfollati e oltre 500 edifici distrutti. Non possiamo rimanere in silenzio».
Da Gaza al Congo. Lei è appena rientrata da sei mesi nella Repubblica Democratica del Congo, un altro conflitto di cui si parla pochissimo. Qual è la situazione?
«La RdC è in guerra da più di trent’anni, un conflitto che si concentra nelle province del Nord e Sud Kivu, aree ricchissime di risorse minerarie come coltan, oro, diamanti. Da gennaio 2025 il gruppo armato M23, supportato dal Ruanda secondo l’Onu, ha preso il controllo di Goma e poi di Bukavu. La situazione umanitaria è drammatica: ci sono oltre 7 milioni di sfollati, la violenza sessuale è diffusa, gli ospedali sono sovraccarichi di feriti. Solo nel mese scorso si stima che siano state uccise più di 7mila persone. Medici Senza Frontiere supporta quattro ospedali, cerca di garantire cure alle vittime, ma la violenza colpisce anche noi umanitari. E non se ne parla. Il mondo guarda altrove».
Cosa la spinge a tornare?
«Non posso restare spettatrice. Non ho la presunzione di cambiare il mondo, ma posso fare qualcosa, nel mio piccolo. E oggi, oltre a curare, posso raccontare. Far sapere cosa sta succedendo nei luoghi dimenticati. Dare voce a chi non ne ha».
Quale sarà la sua prossima destinazione?
«Ho dato disponibilità per partire a metà aprile per un mese e mezzo, poi a partire dal mese di settembre per una nuova missione più lunga. Il mondo è pieno di guerre dimenticate e ci sarà sempre bisogno di qualcuno che curi e racconti».