Romeo Sacchetti detto Meo, 71 anni, allenatore di basket. Un nome, un mito: da giocatore è stato colonna dell’Auxilium Torino e da lì, dopo un grave infortunio, è ripartito come tecnico conquistando vittorie storiche a Sassari e guidando gli azzurri tra Mondiali e Olimpiadi (da giocatore un oro agli Europei). Ora ha scritto un libro sulla sua vita, avventurosa fin dalla nascita, avvenuta in un campo profughi di Altamura, in Puglia. La famiglia vi aveva trovato riparo rientrando dalla Romania (finita nel Patto di Varsavia) e Sacchetti scrive così sulle pagine di “Il mio basket è di chi lo gioca” (Add editore): «I nonni paterni erano emigrati in Romania per cercare lavoro e, oltre a far sorridere, il pensiero che alla fine dell’Ottocento fossero gli italiani a emigrare verso Est e non il contrario come avviene oggi, spero possa anche far riflettere».
Venerdì 21 marzo Sacchetti è atteso a Farigliano, ospite del format “Dardanello incontra”, progetto dell’Associazione Dardanello che coinvolge gli studenti con “A scuola di giornalismo sportivo con Piero Dardanello”. Alle 16.30 l’incontro con i ragazzi della Pallacanestro Farigliano, alla sera la presentazione del libro con i giornalisti Roberto Beccantini e Fabio Monti. «A Farigliano ero stato invitato in un’altra occasione – spiega il coach – ma non ero riuscito ad andare ed ero intervenuto con un collegamento. Stavolta invece posso e sarà un piacere. Anche perché si mangia molto bene!».
È previsto un allenamento con i ragazzi.
«E poi potranno farmi domande, se lo vorranno. Ormai i ragazzini guardano solo la Nba, però magari qualche storia gliela posso raccontare, ad esempio dirò che ho giocato contro Michael Jordan».
Se leggessero il suo libro, troverebbero tanti spunti.
«Qualcosa c’è. Mi hanno proposto di scriverlo dopo che ero stato esonerato da Sassari, mentre nella stagione precedente avevamo conquistato il triplete (campionato, Supercoppa e Coppa Italia, ndr). Avevo molti giorni liberi e potevo incontrare il giornalista Nando Mura che saliva da Cagliari, mangiavamo assieme e lui registrava i miei ricordi. Mia moglie ogni tanto interveniva per togliere qualche mia affermazione “pesante”. Non volevo parlare solo di pallacanestro, mi sembra che il risultato sia buono».
Racconta anche del mito Gigi Riva.
«Mura aveva organizzato un incontro con lui a all’Unione Sarda, a Cagliari. Ci siamo conosciuti e gli ho chiesto: “Vieni a vederci a Sassari?”. Ma non voleva, essendo superstizioso, come tutti nello sport: “Se vengo e perdete vuol dire che porto male”. Eravamo appena usciti dalla coppa in modo rocambolesco e Riva mi rassicurò. “Anche noi a Cagliari abbiamo perso lo scudetto di poco, per poi vincerlo subito dopo. Vedrai che l’anno prossimo ce la fate”. Ha avuto ragione, quando nessuno pensava che potessimo vincere il campionato con la Dinamo. Oggi quando si parla di Riva, in Sardegna, tutti hanno le lacrime agli occhi».
Ma anche lei ha portato un contributo con il basket.
«Sì, ma lui ha vinto da giocatore. Io l’ho fatto da allenatore. Anche per noi è stata una vittoria importante, però non posso paragonarmi a Riva. Abbiamo fatto amare un pochino la pallacanestro e la Dinamo in tutta la Sardegna, cosa impensabile in precedenza, ne eravamo orgogliosi. A ogni partita in giro per l’Europa, c’era una bandiera dei quattro mori tra il pubblico. Questo senso di identità mi è rimasto addosso, infatti ho preso la residenza ad Alghero».
Qual è stato il percorso?
«Arrivato a Sassari rimasi folgorato dalla spiaggia di Balai, angolo di fantastica bellezza, e decisi di abitare a Porto Torres. Però non trovammo una casa. Il presidente Stefano Sardara mi sistemò ad Alghero. Poi quando c’è stata l’opportunità di acquistare un pezzo di terra, non ho avuto dubbi. È stata un’ottima scelta, mia moglie è insegnante e fa avanti e indietro con il “continente”, come si dice qui. E alle ultime elezioni ho votato per la prima volta da cittadino sardo».
D’estate è impegnato con suo figlio Brian al “Sacchetti Summer Camp”.
«Lo facevo già in Valsesia assieme al mio amico Osvaldo Gagliardini. Poi, per i troppi impegni, ho detto basta. Da quando mio figlio ha deciso di partire con la sua iniziativa, vado in Trentino assieme all’altro mio figlio Tommy e resto per una settimana. Stiamo con i bambini. Nessuno di loro oggi usa più la bicicletta, sono sempre sui social. Dobbiamo coltivare la passione dei bimbi che vogliono fare sport».
Un capitolo del libro è “Il cuore a Torino”.
«Ho iniziato ad Asti e da lì ci siamo trasferiti a Torino, dove ho conosciuto mia moglie e ci siamo sposati, dove i miei figli sono nati. Una città che amo e che dopo le Olimpiadi invernali del 2006 è rifiorita fino a diventare veramente un gioiello. Del resto le città con i fiumi sono le più belle».
E ultimamente ha avuto la possibilità di tornarci?
«In panchina, sì. Ma poi la trattativa è saltata. Però a Torino ho giocato, allenato e fatto l’esordio da allenatore della Nazionale: sono contento».
La voglia di allenare è rimasta?
«Sicuramente, ma vorrei farlo da inizio stagione, per costruire una squadra. Vediamo il prossimo anno, ora faccio lo spettatore. Sono stato alle Final di Torino, sarò a Bologna per quelle di A2 e B dove gioca mio figlio (con Roseto, ndr)».
Come vede il momento della pallacanestro italiana?
«È sempre più difficile. Abbiamo fatto dei passi avanti, siamo arrivati vicini a vincere le medaglie. Il problema è che ci manca qualcosa, perché ormai ci accontentiamo di partecipare ai Mondiali, alle Olimpiadi, agli Europei. L’emozione più bella che può provare un atleta sono le Olimpiadi, però qui manca un risultato».
Perché non arriva?
«Il basket è un po’ schiacciato dal bellissimo lavoro che ha fatto la pallavolo e ora anche da Sinner e dal movimento dei tennisti e delle tenniste italiane che sta diventando di altissimo livello. Mi dicono che sempre più giovani vanno a giocare a tennis, invece che a basket. E il futuro di ogni sport passa anche dal reclutamento».
Eppure, il campionato di serie A come quello di A2, esprime valori interessanti.
«È appassionante. Trento è stata in testa alla classifica e ha vinto la Coppa Italia. Ci sono neopromosse come Trapani che sono da primi posti. C’è grande lotta per i play off e c’è la lotta per non retrocedere. La serie A2 ha finalmente adottato la formula di campionato giusta, secondo me».
Tornando al suo libro, lei dice: «La vita molto presto mi ha detto arrangiati». Ma alla fine ne è valsa la pena?
«È logico che ci siano soddisfazioni, rimpianti, delusioni. Fa parte della vita. Non esiste un processo sempre e solo positivo. Bisogna saper prendere le cose giuste, tenersele e lasciarsi alle spalle quelle brutte. A questa età ho imparato a farlo: conservo i ricordi belli dei compagni, dei giocatori che ho allenato e si tratta di flash preziosi. È ciò che mi porto dietro».