C’era una volta un sistema sanitario nazionale davvero a misura d’uomo, cioè di paziente. E adesso non c’è più. Perché non sembra previsto un lieto fine in questa storia: chi di noi non ha sperimentato direttamente o indirettamente il problema delle liste d’attesa infinite oppure del pronto soccorso al collasso, o la sbrigatività di certi medici di base e i rimpalli tra le strutture pubbliche, quelle private e quelle convenzionate? Su questo tema vasto e (in tutti i sensi) doloroso Milena Gabanelli ci ha scritto un libro – assieme alla collega Simona Ravizza –, intitolato “Codice rosso – Come la sanità pubblica è diventata un affare privato” (editore Fuori scena) che compila in pratica una cartella clinica dettagliata e allarmante tutta dedicata al paziente più illustre e malato, il sistema sanitario, appunto.
Milena Gabanelli presenta il suo libro proprio oggi, giovedì alle 17, all’Auditorium dell’ospedale Michele e Pietro Ferrero. Ma prima ci ha concesso l’intervista che state per leggere. Il libro è il resoconto di un viaggio nel sistema assistenziale e ospedaliero pubblico «aggredito da privati e affaristi». Si parte da una certezza, che quello del sistema sanitario italiano rappresentasse un modello per il mondo intero. E che nel frattempo si è sgretolato. Il libro mette insieme documenti, report riservati, storie, testimonianze, dati aggiornati per delineare un quadro complessivo. E per cercare di capire come si è arrivati in Italia al tracollo della sanità e alla deriva di un sistema dove per chi non ha soldi diventa sempre più difficile curarsi. E dove spesso non basta neppure potersi permettere visite a pagamento per sentirsi davvero al sicuro. Il libro parla di chirurghi che finiscono in sala operatoria senza aver eseguito un minimo numero di interventi necessari per saper usare al meglio un bisturi. Si legge anche di medici gettonisti, arruolati al pronto soccorso attraverso qualche cooperativa e in servizio per più di dieci ore; del business dei rimborsi assicurativi; della profilazione degli ipocondriaci per proporre pacchetti d’esami e visite a pagamento. Insomma, di tratta di un’inchiesta completa realizzata sulla base dei tanti approfondimenti effettuati nel corso degli anni per la rubrica online “Dataroom”.
Milena Gabanelli, in quale momento particolare sono cominciate, a suo parere, le prime difficoltà del nostro sistema sanitario e come si è arrivati alla situazione attuale?
«Se si dovesse indicare una data in cui i segnali sono diventati chiari, direi che è stato il 2010, anno coinciso con lo stop ai contratti della pubblica amministrazione che era
stato volutoda Berlusconi e che poi fu confermato da Monti, Letta, Renzi. E anche il 2011 con l’allarme lanciato dal sindacato Anaao che diceva a chiare lettere “va rivista la programmazione perché da qui a dieci anni mancheranno 60mila infermieri e 30mila medici».
Risultato?
«Non si è fatto nulla».
E quali sono state le conseguenze?
«La previsione è esplosa nel momento di massimo bisogno, durante il Covid. In seguito la situazione è solo peggiorata con una vera e propria emorragia di massa».
Perché a un certo punto si è pensato che gli ospedali dovessero essere organizzati quasi come aziende, quindi orientate al business?
«Gli ospedali pubblici non sono mai stati orientati al business. Si è però deciso che dovessero essere gestiti come aziende. E infatti gli ospedali sono diventati aziende sanitarie, per garantire l’efficienza nella gestione di un budget assegnato in base al fabbisogno. Questo aspetto era ed è ancora corretto, il problema è che i manager non sono stati quasi mai reclutati in base a requisiti di provata competenza, ma attraverso il canale della fedeltà politica, e questo non ha prodotto una buona organizzazione e tantomeno l’efficienza, coperta dalla burocrazia, per cui sulla carta alla fine sembra sempre che tutto torni. Ma non è così».
Tra tutte, quale emergenza sanitaria ritiene più allarmante?
«Quella rappresentata dalle liste d’attesa, perché così stratificate costringono i pazienti a ricorrere alle prestazioni a pagamento».
Da dove dovrebbe partire la politica per ricostruire un sistema funzionale?
«Dai medici di medicina generale per potenziare l’assistenza sul territorio e ridurre gli accessi impropri al pronto soccorso e alle visite diagnostiche non necessarie. E poi dalla riorganizzazione degli ospedali pubblici, dal ritiro della convenzione alle strutture private che non eseguono le richieste delle regioni preferendo svolgere solo le attività più remunerative».
Nel libro lei parla di interventi non necessari che vengono effettuati dai medici per poter lucrare sul business assicurativo. È davvero così?
«Gli interventi impropri lucrano prima di tutto sui rimborsi delle regioni e danneggiano i pazienti. per quel che riguarda le assicurazioni, il problema è che non coprono quasi mai interamente una prestazione. Quindi di solito è il paziente ad anticiparla, oppure a suo carico c’è sempre una franchigia».
Nel panorama deprimente che il suo libro descrive, possiamo trovare esempi di eccezioni positive?
«Un monitoraggio scrupoloso dell’Agenas ha elencato le strutture pubbliche dove vengono rispettati i tempi per gli interventi e la qualità dell’assistenza (si trovano soprattutto al nord), quelli che soddisfano solo alcuni dei parametri considerati e quelli che invece possiamo considerare pessimi».