Francesca Della Monica: «Una voce è bella quando è autentica e senza censure»

Cantante e attrice, studia tecniche vocali e a lei si rivolgono registi di prosa e lirica affidandole la preparazione vocale. E ha collaborato con artisti come John Cage: «Il bon ton appiattisce l’espressione vocale su parola e significato»

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«Alla voce fa meglio un whisky che la paura». Se scorrendo la home di facebook venite intercettati da frasi di questo tipo, è probabile che siate capitati sul profilo di Francesca Della Monica. Che non è la sponsor di una marca di superalcolici ma una delle voci più qualificate nel panorama della musica contemporanea, in Italia e all’estero. Can­tante e attrice, studiosa sul cam­po di tecniche vocali, accreditata coach alla quale autorevoli registi di prosa e di lirica affidano la preparazione vocale, do­cente e titolare di seminari presso conservatori, accademie, istituzioni universitarie, ha collaborato e collabora con artisti come John Cage, Lindsay Kemp, Dario Fo, Federico Tiez­zi, Gabriele Lavia, Roberto Bac­ci. Solo per fare qualche nome tirato fuori random da un curriculum che è invece molto organico, ma nel quale i profani, pur molto incuriositi dalle massime distillate sui social e nei suoi te­sti, si orientano come possono.

Mi scusi, Francesca, ma quella del whisky era una battuta, vero?
«No, è uno dei miei aforismi. Intendo dire che la dimensione dionisiaca è essenziale alla voce mentre la paura provoca una situazione irreggimentata. Ma l’aspetto vocale è anche espansivo».

Le massime che ritroviamo sui social sono contenute nel volume “88 aforismi sull’infinito della voce”: da cosa dipende la scelta della forma aforistica?
«Ho sempre amato quelle for­me di espressione la cui brevità nasconde tempi lunghi di vita, incontri, ascolti, osservazioni. Fra­si nate spontaneamente, du­rante le lezioni o le prove, quando sono più a contatto con la materia viva e la necessità di comunicare fa sì che non mi perda in parole inutili».

Perché 88?
«Due volte 8 come l’infinito, per non mettere un punto fer­mo a qualcosa che non conosce confini».

Il volume prevede anche la versione in portoghese tradotta da Ernani Maletta.
«Maletta è musicista e pedagogo e da tempo collaboriamo a una ricerca sulla vocalità nella dimensione teatrale. Inoltre insieme a Maurizio Donadoni, attore e drammaturgo, abbiamo fondato l’associazione Aper­ta che si fonda sulla multidisciplinarità e la drammaturgia allargata, che tiene conto dei diversi orizzonti semantici, dei diversi linguaggi, della stratigrafia dei diversi significati, della polifonia scenica in cui consiste l’archeologia dei testi».

E a una polifonia scenica si risponde con la polifonia vocale: il prefisso “poli” torna spesso nel suo discorso.
«La voce è in sé polifonica, esprime una stratigrafia complessa che va dal ritmo al timbro all’aspetto emozionale, intellettuale, semantico».

Infatti un aforisma recita “non dobbiamo trovare la nostra voce, ma le nostre voci”. Le nostre voci, quindi belle e brutte?
«Vere, perché la bellezza di una voce è proprio la sua verità. La bellezza non è adesione a canoni esterni, modelli estetici prestabiliti, non è andare incontro a determinate aspettative ma incontrare i nostri aspetti dionisiaci, i nostri impulsi e complessi con un atteggiamento aperto, cioè non censorio rispetto a quello che convenzionalmente viene considerato brutto. La censura equivale a una mutilazione».

E contro la censura si apre lo spazio del mito.
«Che prevede di usare anche estensioni estreme e regioni del logos collocate a un’ampiezza extraverbale, diversa da quella della vocalità significante, co­me la partoriente, per esempio. Lavorare sul mito significa collocarsi in zone di pericolo, di emergenza, in cui si perde l’intellegibilità della parola: il lavoro teatrale e la tecnica cercano di traghettare l’intellegibilità della parola anche in quelle re­gioni in cui nella vita si perde».

Ma “che ci piaccia o no, la maleducazione ha una estensione vocale maggiore della cortesia”: anche in questo caso la censura è mutilazione?
«Intendo dire che il bon ton appiattisce l’espressione vocale sulla parola e sul significato. Quando si è fuori di sé la rabbia esorbita dalla dimensione de­putata al solo trasferimento dei concetti. Il bambino appena na­to ha un’estensione vocale più ampia perché il suo gesto vocale è senza consonanti quindi pri­vo di interruzioni».

Ma se “le vocali sono angeliche e le consonanti demoniache”…
«Certo, perché le vocali esprimono messaggi più arcaici rispetto alla nostra vocalità: sono la prima forma espressiva, appunto. Le consonanti invece dividono, hanno la funzione del pensiero analitico, le lingue consonantiche, come quelle germaniche, sono più mentali e meno emozionali».

Meno emozionali e quindi meno fisiche? Cosa intende quando di­ce che la voce risponde me­glio al desiderio che alla volontà?
«Intendo dire che nel desiderio noi siamo interi, cioè il corpo è presente, risonante, mentre la volontà è un processo mentale».

Infatti “il corpo deve annunciare quel che la voce esprimerà”: mi viene in mente un suggerimento di Vittorio Gassman se­condo cui il gesto in teatro do­vrebbe precedere la battuta.
«Sottoscrivo. Il gesto apre il ca­nale della percezione dell’interlocutore che capisce che sto per comunicarti qualcosa e fa sì che la sua attenzione non si abbassi».

È favorevole all’uso dei mi­crofoni in scena?
«Dipende. Il microfono amplifica quello che c’è e che non c’è, amplifica l’insipienza di chi non ha coscienza della propria vocalità. Non è un interlocutore e se non si è in grado di spaziare la voce, non serve, anzi peggiora».

È vero che il falsetto riguarda soltanto la voce maschile?
«Sì perché il falsetto presuppone un salto di ottava cioè un innalzamento repentino, il falsetto femminile è un falso d’autore».

Una voce come quella del celebre Farinelli era un falsetto o come si colloca?
«Farinelli era un castrato e ai castrati veniva impedito il fisiologico sviluppo sessuale. La la­ringe è un organo sessuale se­condario e nei castrati è atrofizzata».

Lei appartiene a quella benevola schiera di addetti ai lavori che nega l’esistenza delle voci stonate: parliamone.
«Lo stonare nasce dalla perdita del potere comunicativo della voce, è la trasgressione a una regola che però suggerisce altre cose legate alle singole esperienze di vita: si stona per ragioni ben precise e ogni stonato stona in modo diverso mentre l’intonazione è sempre uguale. Per questo dico che racconta molto di più una voce stonata di una intonata».

Mi sembra anche molto morbida riguardo all’importanza della dizione.
«Perché la dizione non deve disinfettare l’eloquio ma renderlo plastico, in grado di proporzionarsi all’ambiente linguistico in cui si agisce. Io sono li­vornese e se faccio una conferenza alle Nazioni Unite non parlerò come a casa dove il parlato è un po’ come il lessico fa­miliare. Credo nella dizione per il suo aspetto conoscitivo più che correttivo, come un’avventura verso orizzonti fonici che non sono i nostri che serve ad ampliare la tavolozza dei nostri valori fonici».

Dove potremo vederla in scena prossimamente?
«Nell’”Edipo re” diretto da An­drea De Rosa. Sono il coro che rappresenta la voce mitica, un lavoro su vocalità estreme con tecniche estese in ambito extraverbale».

“A voce spiegata” è il titolo del suo libro, da lei definito una sor­ta di diario di bordo. Spie­gata suona come aggettivo ma anche come participio passato. Cosa si aspetta da chi lo legge?
«Ho messo a disposizione i miei utensili, le mie mappe di navigazione, gli strumenti per creare senza tradire le umanità che attraverso le voci traspaiono o si nascondono. Ma vorrei che il lettore considerasse questa scrittura come provvisoria, sfrontata, assetata di nuovi orizzonti».

Testo a cura di Alessandra Bernocco