Come è possibile che un fenomeno come quello narrato da “Il treno dei bambini” sia rimasto sconosciuto ai più per tanto tempo? Una vasta operazione di solidarietà che, promossa dall’allora Partito Comunista dopo la guerra, permise a migliaia di bambini del Sud di essere ospitati da famiglie del Nord per sfuggire alla povertà e alla fame. Perché per tanti anni non se n’è quasi mai parlato? «Me lo sono chiesta anch’io e mi sono data la risposta: perché è stata opera delle donne». Cristina Comencini, regista del film tratto dal libro di Viola Ardone, racconta il successo del suo ultimo lavoro. «Alcuni a Napoli conoscevano ovviamente la storia, c’era stato anche un documentario. Però nessuno ne parlava. Quando abbiamo cominciato a girare il film, spuntavano come funghi persone che erano state sui treni o avevano ospitato bambini e di colpo abbiamo capito che il fenomeno era molto vasto».
Felice di aver ricevuto il Premio Roddi da Laura Della Valle?
«È meraviglioso essere nominati testimoni di bellezza, credo per aver creato una forma di bellezza nel mio racconto tra cinema, teatro e letteratura. Mi fa piacere aver ricevuto proprio in questa zona un riconoscimento per tutto quello che ho fatto».
Era già stata a Santo Stefano Belbo per il Premio Pavese.
«Sì, ma mai nell’Albese, casa di uno scrittore come Fenoglio che ho sempre amato e che non ha raccontato solo la guerra, era molto legato al territorio e descriveva bene questi posti. Ha fatto della Resistenza un canto internazionale, qualcosa che era la rinascita di tutto un Paese pieno di cose diverse. Con uno spirito anglosassone, privo di retorica».
Come è stato il suo primo impatto con Alba?
«Dal terrazzo della mia camera d’albergo ho ammirato le colline intorno: esattamente l’immagine che ci si aspetta di Alba. Un film qui? C’è tanta bellezza, è una possibilità da considerare».
Come è nata l’idea di girare “Il treno dei bambini”?
«Sapevo che c’era qualcosa in questa storia che parlava a tutti. Il libro mi è piaciuto molto. Ho pensato a quegli anni in cui si scriveva la Costituzione italiana, immaginando che raccontassero qualcosa che ci manca oggi. C’era tanta povertà, anche gli emiliani erano poveri, le donne a Napoli erano disperate e come dice il protagonista “non c’erano neanche i soldi per le scarpe”. Però le persone si sono aiutate, portando 70mila bambini là dove avrebbero potuto mangiare e andare a scuola, almeno per un anno».
I personaggi del film hanno una marcata autenticità.
«Le due madri, una biologica e l’altra che impara a esserlo, rendono il film molto moderno. Oggi ci si rivolge spesso a quegli anni, penso a “C’è ancora domani” per esempio. È come se dovessimo ripartire dalle nostre origini».
Eppure, con gli occhi di oggi, la storia di solidarietà che narra il film sembra incredibile.
«Tutto il mondo oggi si sposta, come quei bambini allora. Forse non abbiamo la mente così aperta da pensare che si possa fare. Invece, basta che le cose vengano organizzate bene. Allarga il cuore pensare che non è detto che qualcosa che facciamo per gli altri, non faccia bene a noi».
I bambini sono in primo piano.
«Ho tenuto la macchina da presa quasi sempre bassa, proprio per raccontare i bambini agli altri. Sono i grandi protagonisti della storia. Esplorare quel mondo visto dai loro occhi contiene un po’ l’idea di una rinascita italiana, di un Paese che era unito e che ancora non si dilaniava, come poi sarebbe accaduto con una divisione fratricida molto difficile da ricomporre, anche per ragioni internazionali. In Italia passava la linea di separazione della guerra fredda, eravamo tra due fuochi».
Un racconto nel racconto?
«Sì, c’è una storia molto privata, bella e moderna, che però si sviluppa con una grande vicenda storica sullo sfondo, quella che appartiene a tutti noi. L’enorme successo del film in Italia poteva essere previsto, ma se avviene anche nel mondo vuol dire che siamo meno individualisti di quello che pensiamo. C’è il desiderio, in fondo, di sentirsi parte di un progetto umano».
Si riferisce anche al fenomeno dell’immigrazione?
«Sì. Non credo che sia facile dare ospitalità degna a tanta gente che fugge. È una cosa complicata e difficile. Però quella ventina di donne ha spostato 70mila bambini, vestendoli e accudendoli. Non è facile, ma è qualcosa che esige del lavoro nell’organizzazione. E poi certo, non può essere infinito. Ma si può fare molto di più».
Come è cambiato, da quel tempo, l’atteggiamento degli italiani?
«In parte, siamo come eravamo, ma in quegli anni veniva fuori il nostro meglio dopo che avevamo provato tanta sofferenza. Si andava avanti insieme, anche con grandi divisioni interne dopo aver affrontato il Fascismo e la Resistenza, ma proprio per questo con un desiderio di unità, umana e poi politica. Un desiderio più grande di quanto poi si è realizzato. La Costituzione stessa ha in sé uno spirito unitario».
Colpisce anche la grande povertà che pervade tutto il film.
«Erano molto più poveri di ciò che possiamo immaginare. Ho presentato il film anche in una scuola di Napoli e per loro è stato importante sapere che veniamo da lì. Perché dà la consapevolezza di aver fatto un grande percorso. Un bambino ha esclamato: poverini, ma davvero non avevano nulla?»
Lei cosa ha risposto?
«Che però loro viaggiavano, noi non ci muoviamo proprio. Una delle cose che ho capito presentando il film, è che in Italia i giovani si muovono poco tra una regione e l’altra. Magari vanno all’estero, però manca fin da piccoli la conoscenza dell’enorme ricchezza italiana».
Quei bimbi che lasciavano le loro famiglie vivevano inizialmente un trauma.
«Ma alcuni non volevano più tornare, come accaduto alla nonna di Serena Rossi. Perché a casa dovevano lavorare, mentre lì facevano i bambini, pur aiutando in campagna. C’era però l’idea che dovessero andare a scuola. Qualcosa che, come nel caso del protagonista, ha creato la frattura. Fa pena la madre napoletana che le carezze non le ha avute e non le “tiene da dare” però il bambino cerca la sua strada. Perché i ragazzi comunque vanno avanti, anche quando noi siamo distruttivi».
Nel film si parla anche di donne e di uomini.
«Sono belle queste differenze intorno alle figure materne e paterne, l’idea che si possa amare un bimbo che non è tuo, che si possa lasciar andare un bimbo che è tuo e che in fondo la cura è ciò che crea legame. Ho quattro figli e so che il legame con loro è nato proprio dalla cura».
Ha sempre parlato molto della figura femminile.
«In questo film c’è la maternità che si allarga all’umanità più in generale. Con la ricchezza, credo, di un cinema che ora ha lo sguardo di tante donne nuove. Come ha detto Alice Rohrwacher, per anni non ci hanno fatto raccontare nulla, ora abbiamo tante cose da dire».
Ha nuovi progetti?
«Ho scritto un libro che uscirà in autunno per Feltrinelli e penso a un nuovo film. E poi c’è il teatro. Devo limitarmi, a volte penso che non sia molto umile. Ma amo il mio lavoro».
Perché il film è uscito su Netflix?
«Si sono innamorati della storia e l’hanno voluto realizzare a tutti i costi. Io sono una regista di cinema che ama la sala, ma ho avuto la sensazione che avremmo potuto fare un grande film. E così è stato».