«Ciao, sono tornata». La semplicità regina, il tutto in una frase. Cecilia che abbraccia il fidanzato, che parla con la Premier, che si scusa per le difficoltà nel colloquio dopo giorni di silenzio e parole smozzicate, che chiede di fumare appena sbarcata, che subito rivolge un pensiero a quelli che ancora non possono vedere il cielo. A lei è appena capitato. Cecilia Sala, 39 anni, giornalista esperta di Politiche internazionali, è stata arrestata il 19 dicembre a Teheran, dove si trovava da una settimana, con visto professionale, per realizzare nuove puntate d’un podcast in cui già aveva narrato la repressione del dissenso e il patriarcato in Iran. Era in hotel, quando l’hanno portata via e rinchiusa in una cella d’isolamento nel carcere di Elvin, quello in cui gli Ayatollah destinano gli oppositori al regime.
L’aria attraverso una finestrella sul soffitto, le dita e le vecchie tacche sul muro contate mille volte per ingannare il tempo, la luce sempre accesa e la coperta per terra, le notti senza sonno e i giorni senza nulla, la compagnia d’un libro negata, gli interrogatori e la paura, una pillola – una sola, poi basta – per stordirsi e riposare un poco, il sostegno di Farzaneh con cui divide l’ultimo tratto di prigionia, l’ansia di un viaggio in auto dopo la liberazione cui fatica a credere. Una vita, giovane, che le scorre davanti confusa al timore che non ci sia domani: una vita che un’informazione posticcia ha riassunto in modo parziale o ingannevole, tra etichette politiche e vezzi presunti, superficiali sospetti d’aver cercato il pericolo, invece guidata dalla voglia di raccontare dal vivo il mondo e le sue contraddizioni, immergendosi nelle realtà più dure per distribuire verità ed emozioni su piattaforme molteplici. Cecilia testimone del ritiro statunitense in Afghanistan, cronista delle elezioni cilene, reporter dentro l’invasione russa in Ucraina, ricostruttrice del delitto di Marta Russo. Diretta nel racconto, asciutta nello stile, eppure capace di cogliere la Storia, dunque commuovere, anche attraverso piccole storie d’umanità quotidiana. Pazienza se qualcuno dietro il dramma d’una inviata in galera, di una giovane senza più libertà, ha cercato il caso a ogni costo, speculato e dettato giudizi, assicurato militanze. E pazienza se perfino la liberazione ha impastato di polemica il sollievo, tra rivendicazioni e accuse, ombre di teatralità, scenari esagerati su poteri forti e dietrologie assortite fino a oscurare le lacrime di una famiglia: in fondo è un malcostume diffuso nell’epoca della maldicenza social e della sicumera ardita di eserciti che nulla sanno e tutto spiegano.
Conta che Cecilia sia a casa, pronta a raccontare nuove storie, migliorata e non prostrata dall’esperienza, più forte degli Ayatollah figurarsi delle chiacchiere, e conta che sia esempio da seguire per nuovi interventi diplomatici: perché altri prigionieri innocenti restano nelle celle buie di Elvin e di tutte le carceri destinate ai dissidenti nel mondo, rinchiusi per aver cercato una verità o contestato una bugia. Ed è bello che Cecilia, riportata nella sua terra, alzando gli occhi al cielo italiano, abbia pensato a chi quel cielo non può vederlo, al massimo intuirlo oltre una finestrella sul soffitto.
Ciao, sono tornata
Cecilia Sala, che racconta il mondo, sceglie la più semplice delle frasi dopo il rientro in Italia: alle spalle il buio d’una cella a Teheran, nel cuore chi ancora non può vedere il cielo, colpevole solo d’opporsi a un regime