In una contingenza geopolitica complessa come quella attuale, l’Italia deve muoversi nella giusta direzione per non compromettere il suo futuro nello scenario internazionale. È quanto suggerisce “Rompere l’assedio”, nuovo saggio di Roberto Arditti, al quale abbiamo chiesto un approfondimento. «Premesso che siamo in uno scenario di grande complessità – ci ha detto lo scrittore e giornalista -, voglio evidenziare come le dinamiche internazionali, siano determinate da eventi di forza, sia essa militare, economica o di altra natura come l’intelligence. Anche nei teatri delle due crisi di cui si parla di più, cioè il Medio Oriente e tra Ucraina e Russa, vediamo che alla fine i fatti più brutali sono quelli che determinano gli equilibri. Vorrei far uscire il dibattito europeo da una versione edulcorata delle cose che non ha cittadinanza nel ventunesimo secolo, pieno di eventi forti. Sui cui si scrive la storia».
Ci sono gli atti di forza e le azioni meno visibili come le “guerre ibride”?
«Il libro spiega perché le democrazie occidentali siano sotto attacco. Di questo c’è poca consapevolezza, ma i flussi migratori sono uno strumento di guerra ibrida: se una persona decide di cercare una vita migliore per sé, è un conto. Ma quando le persone sono milioni e i loro spostamenti vengono gestiti e incanalati verso alcune destinazioni piuttosto che altre, le cose cambiano».
In che senso?
«Vediamo forse flussi migratori da paesi in guerra o dove c’è una situazione difficile, come la Siria, verso la Cina? E non è che lì non ci siano opportunità di lavoro, ma guarda caso i flussi sono tutti indirizzati verso l’Europa. Nel libro parlo di profughi siriani o iracheni, o addirittura dall’Oriente che improvvisamente si presentano al confine della Finlandia, sul lato russo o al confine con la Polonia, sul lato della Bielorussia, dopo un viaggio di migliaia di chilometri, per entrare in Europa. Non accade per caso, bisogna rendersene conto».
Secondo lei l’Europa come dovrebbe muoversi?
«In primo luogo, prendendo consapevolezza. Nell’ultimo biennio il dibattito ha preso più forza perché la guerra vera è tornata alle nostre porte. Ma i segnali c’erano già da vent’anni e l’Europa ha continuato ad agire come fossero temi secondari. Io dico che il dibattito, anche italiano, sul 2% di spese per la difesa è già ampiamente superato, perché quello che dovremmo fare nei prossimi anni è spendere molto di più, se vogliamo essere all’altezza delle sfide. Saranno gli americani, la nuova amministrazione Trump, a ricordarcelo brutalmente».
Quali i passi da fare per la realizzazione del concetto di Europa?
«Sin qui Italia, Francia, Germania, Inghilterra e altri paesi hanno pensato a costruire ognuno un proprio carro armato. Dal punto di vista industriale, non ha senso. È il momento di dare vita a progetti comuni. L’accordo siglato dal più grande gruppo italiano, Leonardo Reihnmetal, per produrre il Leopard segna finalmente una presa di coscienza. Non è un caso che ad accordi di questo genere si arrivi dopo quello che è successo nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina, la paura sveglia le coscienze».
Come vede lo scenario politico europeo in questo senso?
«L’Europa è l’unico grande progetto che abbiamo. Nella sua integrazione economica ha dato vita a una moneta unica che è strumento potentissimo. Si è un po’ fermata lì. Certo, per giocare questa partita ci vorrebbe un governo europeo. E non nella versione che conosciamo ma un governo eletto direttamente dai cittadini. Questo darebbe forza a un primo ministro europeo che però non è all’ordine del giorno. Non possiamo pretendere che improvvisamente Italia, Francia e Germania diventino una sola nazione. Non è verosimile, ma si possono fare alcune cose. La prima è mettere realmente a fattore comune il tema della difesa. Soprattutto perché ha ormai dimensioni, dal punto di vista degli investimenti, che non consentono a nessuno di agire da solo. L’Italia sta lavorando sul Leopard assieme a Uk, Giappone e, notizia di questi giorni, l’Arabia Saudita. Bisogna mettere insieme le forze, creare una coalizione tra le grandi democrazie e gli interlocutori che hanno voglia di lavorare con esse, come l’Arabia Saudita».
Verso la costruzione di un esercito comune?
«Assolutamente sì, le attuali forme di coordinamento vanno bene solo in tempo di pace».
Nel suo libro parla anche di figli.
«La demografia è il più importante fattore di cambiamento della storia. Per quanto riguarda noi e anche gli altri Paesi europei, ci sono pochi anni per mettere mano seriamente a una questione che è di enorme rilevanza. Anche se va detto che il tasso di natalità rallenta in modo significativo anche in Cina e sta cominciando a dare segnali di rallentamento persino in India dove l’affacciarsi della nuova piccola borghesia vede crollare il numero dei figli da 8-9 a famiglia, a due o tre. Abbiamo bisogno di una terapia shock, investendo cifre molto grandi per incoraggiare le famiglie a fare figli. Non si potrà affrontare questa emergenza con i bonus da mille euro perché sono un palliativo. Ricordo una misura approvata in Ungheria, l’orribile Ungheria di cui tutti parlano male: una legge dice che dal quarto figlio, non paghi più le tasse, a vita. L’idea è che se hai fatto quattro figli di cui ti prenderai carico fino alla loro maggiore età, questo contributo sociale è sufficiente per l’esenzione dal pagamento delle tasse. Un principio che andrà preso in seria considerazione. Siccome il problema è gigantesco, richiederà investimenti giganteschi».
Invece la tregua in Libano porterà a qualcosa di positivo?
«Bisogna capire che Israele è una nazione che ha più interesse a vivere in pace che in guerra, perché è un piccolo Paese di grandi relazioni internazionali. Questa condizione di guerra mette in grande difficoltà il vivacissimo mondo economico israeliano, le sue startup. L’immagine di una Nazione guerrafondaia è insensata. Come tutte le democrazie, si trova male nel momento della guerra. Certo che il 7 ottobre, ha rimesso politicamente Netanyahu al centro. A questo si contrappone la volontà di una serie di nemici, dell’Iran in particolare, che tifano per il caos: altro tema che secondo me in Occidente non viene colto fino in fondo. Ma in effetti esistono nel mondo attori che tifano per il caos, guarda caso nessuno di questi è una democrazia. Detto ciò, le situazioni si possono aggiustare, anche se ci vorrebbe un più coraggioso impegno da parte dei paesi islamici».
Per concludere, lei conosce la provincia di Cuneo?
«La conosco per le sue tante eccellenze, da quelle in bottiglia a quelle che portiamo in tavola. Bellissima terra non solo agricola, in verità, ma anche di piccole e medie imprese di grande eccellenza. Insomma, una delle zone d’Italia che custodisce memorie e meraviglie, la nostra storia, la nostra tradizione. Ed è tutto quello che dobbiamo portare anche nel futuro. Spero di ritornarci presto».
CHI È
Dal mese di aprile del 2018 è direttore editoriale e membro del consiglio di amministrazione di Base Per Altezza, società che edita le testate Formiche, Formiche.net ed Airpress. Insegna occasionalmente all’Università Iulm di Milano il corso di Laboratorio di Giornalismo
COSA HA FATTO
Già direttore del quotidiano Il Tempo, è stato direttore delle news di Rtl 102.5, dove ha anche condotto la trasmissione “L’indignato speciale”
COSA FA
Ha scritto “Rompere l’assedio. L’Occidente si salva solo se capisce le vere sfide del nostro tempo” edito da Paesi Edizioni (2024), dove si parla di figli, politica e armi: le sfide che abbiamo davanti