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«Tv, teatro e non solo È la nostra tradizione»

Massimo Reale è attore, sceneggiatore ma anche fantino e ipnotista. Ha scritto i testi di “Lolita Lobosco” dove interpreta il personaggio di Sapori: «E sono grato a Manzini che mi ha scelto per “Rocco Schiavone”»

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Gli affezionati di Lolita Lobosco ri­corderanno il personaggio di Carlo Sapori, colui che aveva accolto la domanda di ammissione in polizia di Lolita, giovane figlia di un pregiudicato. Il pentito che a Sapori confessò le sue pene e i suoi sensi di colpa affidandogli una lettera struggente da consegnare alla figlia qualora fosse stato ucciso. Sapori era interpretato da Massimo Reale, attore che si muove con agio tra la televisione, il cinema e il teatro im­pegnato, dai tragici greci ai contemporanei, che contemplano testi anche scritti apposta per lui. Ma il pubblico televisivo forse non sa che dietro agli episodi di Lolita, c’è an­che la sua penna, cosceneggiatore insieme a Massimo Gau­dioso, Daniela Gambaro, Va­nessa Picciarelli e Chiara Lau­dani.

Massimo, come si è svolto il lavoro di trasposizione dai romanzi di Gabriella Genisi alla sceneggiatura?
«Innanzitutto bisogna chiarire che la televisione, rispetto alla narrativa, ha esigenze di­verse. Sono rimasti inalterati gli elementi centrali dei ro­manzi, la città di Bari, meravigliosa, e il fatto che una don­na brillante sia a capo di una squadra di uomini, d’altra parte si sono dovute espandere caratteristiche che nei ro­manzi sono soltanto indicate, come gli elementi di vita privata dei personaggi».

Non c’è stata nessuna invenzione da parte vostra?
«Sì anche perché Gabriella Genisi ci ha lasciati liberi e si è fidata. Il personaggio di Ni­cola Petresine, per esempio, il padre di Lolita, nei romanzi è un carabiniere che viene ucciso da dei criminali. Noi invece dovevamo creare un conflitto tra Lolita e la figura paterna e ne abbiamo fatto un contrabbandiere. Perché se i due so­no portatori degli stessi valori è più difficile generare un con­flitto».

Recentemente è andato in onda “Terrarossa”, poi cosa ci dobbiamo aspettare?

«“Terrarossa” tratta un tema molto caro a Gabriella, lo sfruttamento del lavoro e su questo abbiamo lavorato. I prossimi episodi invece sono quattro gialli frutto di invenzione. Siamo partiti chiedendoci quale tipo di storia non avevamo ancora coperto e ci siamo orientati sulla spy-story».

È di pochi giorni fa la notizia che la nuova serie di “Don Matteo”, che doveva essere trasmessa dal 4 aprile, è slittata al prossimo autunno. So che è presente nel cast.

«Come attore è stata un’esperienza interessante. Inter­preto un barbone, un personaggio curioso».

E di serie in serie, dall’Umbria alla Val d’Aosta, la vedremo anche nella nuova edizione di “Rocco Schiavone”.

«Infatti sono stato da poco a girare in Val d’Aosta. “Rocco Schiavone” è un piccolo miracolo, una fiction scritta molto bene dai romanzi di Antonio Manzini, al quale sono grato per avermi scelto. E Marco Giallini è un attore straordinario. Il mio è un personaggio estroso, un medico legale anatomopatologo che collabora con Schiavone».

E come lei, è fiorentino.
«Io ho una nonna senese».

Ecco. Quindi la sua passione per il palio arriva da lì? Penso a “I Trenta Assassini”, il testo che ha scritto per un libro fotografico di Marco Delogu, con protagonisti i fantini del palio.
«Nella mia vita ho fatto trecentocinquanta corse nei vari ippodromi italiani, ho conosciuto tutti i fantini del palio e tuttora ho un rapporto stretto con quel mondo e un amore per le contrade».

E per quale contrada tifa?
«Per la contrada della mia nonna».

Fa bene a non esporsi. Al palio è anche dedicato il monologo scritto per lei da Sergio Pie­rattini, “L’uomo sottile”, uno spettacolo che ha in re­pertorio e che ogni tanto ripropone. Di cosa si tratta?
«È la storia di un fantino che viene rinchiuso in una cantina accusato di avere perso per favorire la squadra avversaria, ma è soprattutto una metafora della menzogna e della colpa. Il pubblico assiste al suo dibattersi e ai suoi sforzi di convincere gli altri che è onesto».

O di convincere anche sé stes­so: è onesto davvero o vuole essere liberato?
«Chissà».

La regia è firmata da Manuela Mandracchia, un’attrice con cui ha lavorato anche nelle tragedie.
«Quella di Manuela è stata una supervisione artistica nel senso che mi ha aiutato a recitare meglio, una coach con un occhio alla globalità dello spettacolo. È una delle mi­gliori attrici italiane a averla in platea è stato rassicurante».

Quanto gioca la notorietà te­levisiva al teatro?

«Indubbiamente aiuta ma io quando ho iniziato a fare questo lavoro facevo riferimento a una tradizione di attori italiani che hanno sempre fatto di tutto, da Gassman a Salvo Randone a Glauco Mauri: commedia, tragedia, televisione, cinema, doppiaggio. È una tendenza molto moderna essere considerati “attori di fiction”».

Allora parliamo della sua esperienza nei teatri greci, da Tindari a Siracusa ai Teatri di Pietra. È di lunga data la sua collaborazione con Walter Pa­gliaro, da cui è stato più volte diretto, ma anche quella con Luca De Fusco e Walter Man­fré, recentemente scomparso.
«L’esperienza nei teatri greci è sempre straordinaria dal pun­to di vista artistico. Ca­pisci qual era il lavoro dell’attore nel IV secolo a.C., il suo ruolo nel quale tutta la comunità si rispecchiava. La consapevolezza di essere nei teatri dove i tragediografi greci hanno assistito alle prime rappresentazioni delle loro opere è entusiasmante».

Attore, sceneggiatore e anche ipnotista. Com’è avvenuto il suo avvicinamento all’ipnosi?

«Mi sono avvicinato per mi­gliorare la memoria poi ho finito per prendere una laurea in psicologia e sono diventato psicoterapeuta della gestalt. L’ipnosi è utile in tanti frangenti, per abbassare la tensione e per superare i meccanismi di difesa».

Le è capitato di praticarla sui colleghi?
«Di più sui cantanti. Noi siamo strumenti a fiato e la rilassatezza determina la qualità del suono».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco