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Il ricordo di Luca

Zakia Seddiki, moglie dell’ambasciatore italiano ucciso tre anni fa in Congo, è tornata nei luoghi dell’assassinio per raccontare chi era suo marito. Così riannoda un filo reciso anche in nome delle bambine

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Pochi giorni fa, il terzo anniversario. Il dolore c’è sempre, radicato nel cuore, ma le ricorrenze, si sa, ingigantiscono il vuoto. Così Zakia Seddiki s’è ritrovata a sfogliare i ricordi avvolta dal buio d’una sofferenza rinnovata, profonda: suo marito, Luca Attanasio, ambasciatore italiano, fu assassinato in Congo il 22 febbraio 2021, insieme a Mustapha Milambo, l’autista, e Vittorio Iacovacci, un carabiniere di scorta. «Ci ha lasciati da tre anni, ma non è morto: è sempre con me, con noi».
In tanti lo hanno ricordato nel piccolo cimitero della sua Limbiate, in Brianza, persone comuni e qualche autorità, nessuno dalla Farnesina ed è triste anche se una commemorazione ufficiale è in agenda a Roma. Le responsabilità dell’agguato non sono state accertate, le indagini non hanno fatto chiarezza, il papà ha appena promesso di non mollare e non c’è rabbia, né rancore nel suo parlare, soltanto voglia di giustizia.
Resta la testimonianza lasciata, dell’impegno verso un popolo che valicava i compiti diplomatici, e restano le tante iniziative in suo nome. La ricerca di pace e solidarietà procede attraverso il suo esempio, portata avanti in particolare dalla moglie che oltre a perpetuarne quotidianamente il ricordo, ha trovato la forza di raccontarne la vita nel documentario “Broken Dream”, tornando in Congo per spiegare chi era. È una storia d’amore, oltre che di umanità, approfondita in un’intervista a Repubblica: la conoscenza in Marocco, il suo Paese, nel giorno di San Valentino, i numeri scambiati, la scelta di condividere la vita che l’ha condotta a Roma, senza parlare italiano, e poi in Nigeria e poi in Congo dove il sogno è finito, falciato da proiettili. Il coraggio, la determinazione di andare avanti gliel’hanno data le tre bambine e anche a loro serviva il ritorno in Congo per riallacciare un filo reciso, rafforzare la memoria più di quanto faccia ogni giorno, anche attraverso la fondazione Mama Sofia, fondata con il marito per sostenere i bambini di strada e le mamme in condizioni di disagio sociale o di difficoltà economica. Un viaggio intimo, personale, che ritrae l’uomo e non il diplomatico, e svela il legame con un Paese che è popolato di amici, anche se lì, brutalmente, Luca è stato strappato alla famiglia. «Se ho trovato la forza per girare il documentario – ha confermato Zakia a Repubblica -, è principalmente per le bambine, anche se non è ancora il momento, per loro, di vederlo. Intanto racconto chi era il papà tutti i giorni, con le cose che faccio. Questo è il mio modo: Luca era un uomo concreto e io lo onoro concretamente, con le scelte che compio tutti i giorni. So che sembra strano, ma io dialogo con Luca, anche se a distanza, lo interpello quando devo prendere delle decisioni. Continuo a sentirlo, trovo segnali della sua presenza, tra noi c’è una connessione». E così la vita scorre e l’esempio vive e la memoria affonda radici: tante associazioni, tante città l’hanno ricordato in questi giorni, a Salerno gli hanno intitolato una strada. E l’affetto della gente aiuta a lenire il dolore di una perdita immensa e anche l’amarezza, la delusione per il processo italiano arenatosi sul non luogo a procedere deciso dal Gup per due dipendenti del Programma alimentare mondiale, agenzia dell’Onu, coinvolti nell’indagine della Procura. «Tu sei un seme di grano, un seme che continua a germogliare, che continuerà a dare frutti, ora e sempre» le parole di papà Salvatore.