Avere cura, donarsi all’altro, richiede una purezza di sentimenti, passione e spontaneità ormai sempre più rari nella società odierna. Tra i testimoni di questi importanti valori, dall’alto della sua esperienza, vi è Massimo Foglia, medico ginecologo, primario del reparto di Ostetricia e Ginecologia all’Ospedale di Alba fino al 2018, decano delle attività di volontariato. Proprio sulle sue missioni – e sulle motivazioni che le animano – noi della Rivista IDEA lo abbiamo intervistato.
Dottor Foglia, di recente è stato protagonista – con l’associazione ApidiCarta – di un progetto di volontariato in Africa, in Benin. Com’è andata la missione?
«È stata un’esperienza emotivamente forte che ci ha arricchito. Dal punto di vista sanitario, ho avuto l’impressione che in quella zona sia più difficile operare, questo perché esistono dei problemi a livello organizzativo. Per il resto è stato tutto perfetto: abbiamo portato a tanti bambini che ne hanno estrema necessità un sacco di materiale, riso, pasta».
La sua attività di medico volontario è partita in Africa e poi si è svolta soprattutto in Messico, dove si reca ormai da una ventina di anni. Com’è nato il suo coinvolgimento in quelle zone?
«Ho cominciato con mia moglie, Patrizia Casetta, ostetrica, nel 1991, in Kenya, all’Ospedale di North Kinangop. Abbiamo svolto le nostre missioni fino al 2006, quando ormai l’ospedale era assolutamente autonomo e non aveva più bisogno del nostro supporto. Nel 2004, invece, tramite l’amica Claretta Gagna, abbiamo iniziato l’esperienza messicana, in Chiapas, constatando da subito come ci fosse effettivamente la necessità di dare una mano. All’epoca non c’era un ospedale: io e il collega Giancarlo Sebastiani, urologo, partimmo con l’ausilio di suor Anita, messicana, persona eccezionale, ottima anestesista, purtroppo deceduta nel 2016. Nel corso degli anni si sono poi aggiunti tanti altri collaboratori, tra i quali Carlo Zabaldano, strumentista di sala operatoria».
Considerata la sua grande esperienza, in cosa crede sia migliorabile in quei luoghi la situazione sanitaria generale e, in particolare, la condizione della donna?
«Non si tratta di migliorare soltanto per le donne, ma per tutti. Dal punto di vista sanitario generale, bisogna cercare di portare quei contesti a un livello minimo accettabile, come quello che è stato raggiunto in Kenya. Occorre migliorare le strutture, assumere personale: sono processi costosi, per cui sono fondamentali disponibilità economiche. In generale, sarebbe importantissimo garantire la normalità: per quei luoghi sarebbe già un’eccellenza».
Di sicuro in questi anni avrà vissuto momenti molto emozionanti. C’è qualche episodio che ricorda in particolare?
«Ultimamente mi sto pentendo di non aver mai scritto un diario di tutti questi episodi. Una vicenda particolarissima è avvenuta in Kenya. Appena arrivato sul posto, mi dicono di operare una donna alle prese con delle emorragie. La mattina dopo l’intervento troviamo il letto vuoto: abbiamo temuto il peggio. Invece, la signora era fuori, seduta sotto una pianta, a mangiare un mango. Mi avvicino per sincerarmi delle sue condizioni e lei mi regala proprio un mango. Indimenticabile: sono queste le emozioni che ti spingono a continuare».
Il volontariato, d’altra parte, è apertura all’altro, intesa come condizione imprescindibile per il compimento della propria natura umana. Si rivede in questa affermazione?
«Come ha detto una volta mia moglie, quando siamo in missione riceviamo molto di più di quanto diamo. Mi sono avvicinato al volontariato proprio per cercare di dare una mano a tante persone. Un mio collega aveva iniziato in Kenya e mi aveva chiesto di raggiungerlo. È nata così, comincia tutto così».
Nelle sue esperienze porta con sé le sue radici, i posti in cui ha lavorato. Lo avverte in missione?
«Certo, è assolutamente inevitabile. Anche quando vai da un’altra parte, le radici rimangono qui. Mi sono specializzato a Verona, ma sono nato e ho sempre vissuto in Piemonte. Dal 1989 ho lavorato ad Alba, dove sono stato primario dal 2010 al 2018. Con me partecipano anche altri specialisti della zona: per cui si tratta di una vera e propria esperienza condivisa».
So che ha in programma nuovi progetti: ce ne parla?
«Nel mese di marzo partiremo per la diciottesima campagna in Messico. Con me ci saranno mia moglie, due anestesisti veneti – Gianna Zanette e Luca Dal Tin – e Giancarlo Sebastiani, che rientra con noi dopo la scomparsa del dottor Pier Paolo Fasolo, collega e amico fraterno che per un decennio ha condiviso le esperienze messicane. Andremo ancora nel Chiapas, all’Ospedale San Carlos di Altamirano. Svolgeremo l’ormai “consueto” servizio: il personale locale raggrupperà gli interventi che si possono eseguire e opereremo ogni giorno dalle 8 alle 20, senza sosta. Ne approfitto per sottolineare come il nostro sia un lavoro di equipe. La grande efficacia della nostra organizzazione sta nel fatto che tutti collaboriamo e siamo garanti della continuità nel tempo e della qualità dell’offerta. L’ho ribadito anche quando, nel 2019, mi è stato conferito il Premio Italia-Messico dalla Camera di Commercio messicana: un riconoscimento per tutta la nostra squadra».
Dalle sue parole emerge tanta emozione…
«Anni fa promisi a suor Anita che avremmo continuato fino a quando saremmo stati in grado di farlo: così sarà».
Articolo a cura di Domenico Abbondandolo