«Grazie ad Antigone portiamo in luce l’idea di fraternità»

L’ultimo spettacolo del torinese Gabriele Vacis parla di temi sociali: «I ragazzi cercano questo»

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Nato a Settimo Torinese da ma­dre veneta e pa­dre bergamasco, Gabriele Vacis, di Settimo è divenuto presto un pilastro insostituibile, punto di riferimento di una comunità che da lì, da quella grigia periferia torinese, si sarebbe fatta conoscere a livello nazionale e internazionale. Erano i pri­mi anni ottanta quando, con un gruppo di amici e colleghi, fondò il Laboratorio Teatro Settimo, polo di un fermento culturale che avrebbe catalizzato nel tempo artisti, intellettuali, amanti a vario genere di un teatro che con la ricerca faceva sul serio. Un’espe­rienza, quella del Labora­torio, che non è mai terminata e che nonostante il formale e fisiologico scioglimento della compagnia, continua a generare i suoi frutti in direzioni diverse, forte di un imprinting riconosciuto e riconoscibile. “Anti­gone e i suoi fratelli”, spettacolo che ha da poco debuttato alle Fonderie Limone di Moncalieri, è il più recente risultato di questo percorso, arrivato fino ai giovanissimi attori della compagnia Pem (Potenziali Evocati Multime­diali), prodotti dal Teatro Stabile di Torino. «Una compagnia di ventenni che si occupa di classici – dice Vacis – per capire cosa continuano a dirci e perché ce ne occupiamo ancora».

Perché Antigone e i suoi fratelli?
«Perché questo lavoro è la storia della figura di Antigone attraverso i tragici, da Sette a Tebe di Eschilo, passando dai testi sofoclei fino a Fenicie di Euripide. E nelle diverse tragedie assume una profondità nel rapporto con i fratelli, Eteocle, Polinice e Ismene».

Nelle note di regia scrive “cercheremo la sostanza pesante della fraternità”: cosa intende esattamente?
«Intendo che la fraternità è il sentimento su cui si fondano sia l’uguaglianza sia la libertà, temi che invece rientrano molto più frequentemente nel dibattito pubblico. Si parla di uguaglianza, per esempio, a proposito di redistribuzione della ricchezza, ma se non c’è il sentimento della fraternità, quali dovrebbero essere le ragioni per le quali tu, ricco, dovresti dare i tuoi soldi a me? Un discorso analogo vale per la libertà: quando siamo veramente liberi? Di nuovo, senza la fraternità come faccio a capire che la mia libertà arriva fin dove comincia la libertà dell’altro?».

Concretamente, come avete lavorato?
«I ragazzi hanno raccolto materiali, ascoltato storie, individuato temi portanti muovendo dalla considerazione che Antigone è una giovane donna disposta a morire per una causa. La domanda che si sono posti è dunque: c’è qualcosa per cui noi siamo disposti a morire?»

Ad Alba ha diretto Beppe Rosso: «La scrittura dei grandi scrittori langaroli appartiene al nostro linguaggio»

Quali sono state le risposte?
«Straordinarie. C’è un lungo monologo in cui un attore dice: io non ho niente per cui morire e sono quasi invidioso dei ragazzi ucraini che credono in una ragione forte per farlo. Un altro: vorrei vedere mia madre piangere non solo per una multa. Noi abbiamo cresciuto una generazione con il mito della sicurezza ma loro vogliono il rischio, così come lo volevamo noi. Invece abbiamo costruito loro una campana di vetro privandoli di una possibilità profondamente formativa».

Per fortuna c’è ancora chi va contromano. Affrontare temi come questi partendo dai classici è una bella scommessa.
«Sì, non è vero che i giovani non sono sensibili alle questioni sociali, anzi, lo sono moltissimo, non aspettano altro che occuparsi di politica ma nel senso più serio, non di partiti. E se gli si propongono argomenti anche impegnativi, come quelli che ci arrivano dai classici, sono entusiasti di raccoglierli. In questo lavoro abbiamo cercato di esplorare i sentimenti anche attraverso il corpo, il contatto fisico».

A proposito di lavoro sul corpo, so che il suo in particolare si basa su un training che chiamate “schiera”, sorta di camminata neutra a cui poi si aggiungono caratterizzazioni successive.
«La schiera serve a essere presenti: a sé stessi, agli altri, al tempo e allo spazio. Partiamo da un gesto primigenio come il camminare, ma poi la camminata si evolve e diventa, usando una metafora animale, branco o stormo, cioè movimenti in cui ognuno si relaziona con gli altri, come fanno gli uccelli che disegnano figure meravigliose senza mettersi d’accordo, ma anche i lupi perché muoversi in branco richiede precisione. E così è per il gregge, termine che noi usiamo in senso negativo, invece per andare dietro agli altri serve esattezza».

Ma allora come difendersi dal rischio omologazione?
«Attraverso la conoscenza di sé, la percezione, altro termine che usiamo impropriamente, per indicare la prima impressione di fronte a un fenomeno. La percezione di sé invece è il lavoro mai interrotto di una vita e anche in questo caso si parte dal fisico per aprirsi verso possibilità mentali. La percezione di sé è quel che ti permette di stare con gli altri senza avere paura degli altri».

Che è un po’ la mission dell’Istituto di Pratiche Tea­tra­li per la cura della persona, fondato da lei, Roberto Ta­rasco e Barbara Bonriposi, realizzato dal Teatro Stabile di Torino.
«Siamo convinti che il teatro sia innanzitutto cura della persona e per questo ci rivolgiamo a tutti: attori ma anche animatori sociali, educatori, medici, operatori sanitari. All’inizio faticavamo a fare accettare questa idea proprio agli attori, sempre nell’ottica di dover fare provini, ma poi hanno capito. Il teatro è nato per questo e il suo futuro non può essere l’intrattenimento. L’istituto nasce prima di Pem ma ormai sono realtà strettamente connesse».

Perché Pem?
«Il nome Potenziali Evocati Multimediali è mutuato da Potenziali Evocati Motori che in neurologia sono parametri che misurano il tempo di relazione tra il cervello e i nervi periferici, cioè quanto impiega un impulso ad arrivare dal centro alla periferia».

Una bella metafora, anche pensando al Laboratorio Set­timo, nato in periferia. Le chiedo un ricordo di Eugenio Allegri, figura cardine di quel laboratorio, che ci ha lasciato lo scorso anno.
«Proprio l’altro giorno, con Alessandro Baricco, ci dicevamo quanto ci manca: lui e il suo “Novecento”, in cui ogni volta riusciva a inventarsi qualcosa di nuovo. Eugenio apparteneva a quella specie di attori che sono anche autori della loro presenza in scena e ogni volta era capace di rivelare all’autore qualcosa di nuovo sul suo stesso testo».

Recentemente ad Alba ha diretto Beppe Rosso in “Un giorno di fuoco” di Beppe Fenoglio. Cosa rappresentano le Langhe e Fenoglio per lei?
«Le Langhe le ho scoperte proprio attraverso amici come Beppe che è proprio langarolo e frequenta quelle zone anche con lo stimolo dei grandi scrittori, da Fenoglio a Pavese a Nuto Revelli, che sono nostri punti di riferimento da sempre perché la loro scrittura appartiene al nostro linguaggio. Nel caso di “Un giorno di fuoco” abbiamo mantenuto il racconto così com’è, parola per parola, pronunciata senza inquinamenti».

Invece a Santo Stefano Belbo avete presentato La compagna Natalia, un racconto di amicizia declinata al femminile scritto da sua moglie, An­tonia Spaliviero, mancata nel 2015. Com’è andata?
«Molto bene, il libro è stato accolto con grande entusiasmo e tante bottiglie stappate».

A cura di Alessandra Bernocco