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«Cibo a basso costo ecco l’equivoco che ci fa più male»

Il primo bilancio di Edward Mukiibi da presidente: «La nostra salute dipende da cosa mangiamo e se il prezzo è troppo ridotto, allora c’è qualcun altro che sta pagando»

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Edward Mukiibi, sono passati pochi mesi dalla sua nomina a presidente di Slow Food: quali impressioni?
«Innanzitutto, in questi ultimi mesi sono rimasto colpito dall’impegno e dalla determinazione dimostrati dagli attivisti di Slow Food in tutto il mondo per sostenere i principi della nostra organizzazione. Il loro lavoro per fermare la devastante perdita di biodiversità e la crisi climatica è fonte di speranza e di orgoglio. Chiunque si identifichi nei nostri valori e partecipi alla rete delle Co­munità Slow Food è di fondamentale supporto per i progetti che portiamo avanti in tutto il mondo. Basti pensare all’Arca del Gu­sto, ai Presìdi, all’Alle­anza dei Cuochi, ma in particolare al progetto a cui ho lavorato fin dall’inizio e di cui ho potuto toccare con mano l’enorme importanza per la sicurezza e la sovranità alimentare di molte comunità: gli Orti in Africa. Un perfetto esempio di collaborazione concreta – non meramente assistenziale – tra il Nord e il Sud del mondo».

Uno dei suoi obiettivi dichiarati è quello di rendere la rete di Slow Food ancora più aperta e inclusiva, senza confini. È così?
«Il nuovo Consiglio internazionale di Slow Food, eletto in occasione del Congresso internazionale di Pollenzo-Bra, è espressione dell’impegno per il rinnovamento e il rafforzamento di Slow Food. I leader che ne fanno parte dedicano il loro tempo, la loro capacità e la loro attenzione alla solidarietà. Quando ci si chiude nei propri confini, nell’illusione che sia vantaggioso secondo una mentalità sovranista, penso che invece questo sia una minaccia per la pace e il benessere dell’umanità, oltre che per la situazione politico-economica mondiale. Il sistema alimentare può essere cambiato solo se pensiamo in modo globale, con uno spirito di collaborazione vera, aperta, inclusiva e solidale».

Come valuta la situazione attuale dell’alimentazione so­ste­nibile nel mondo?
«Stiamo perdendo un numero significativo di specie, sulle quali è stata costruita la nostra cultura alimentare tradizionale, e questo rappresenta un grande rischio per la sopravvivenza di molti piatti, tecniche e relazioni sociali in generale. La perdita di biodiversità non lascia altra scelta a molte persone se non quella di adattarsi a una dieta basata su alimenti standardizzati altamente lavorati, prodotti industrialmente e di cattiva qualità. Secondo la Fao, gli agricoltori su piccola scala (con meno di 2 ettari coltivati) producono circa un terzo del cibo mondiale. Piccola scala significa legati a un modello specifico di agricoltura, più sostenibile, spesso biologica o agroecologica. Nel 2019 l’Istituto Indipendente per lo Sviluppo Sostenibile e le Relazioni Internazionali (Iddri) ha pubblicato lo studio “Dieci anni per l’agroecologia”, che mostra come sia possibile per l’agricoltura europea passare interamente al biologico. Un’Europa agroecologica può soddisfare la domanda di cibo equilibrato attraverso una dieta sana, rispondendo al contempo ai cambiamenti climatici, eliminando i pesticidi e mantenendo la biodiversità vitale. Ciò è possibile stabilendo parametri di riferimento adeguati e concentrandosi sulla trasformazione delle ri­sorse naturali anziché su input esterni. L’attuale sistema agroalimentare europeo non è più sostenibile».

«L’attuale sistema agroalimentare europeo non è più sostenibile. Uno studio dimostra come sia possibile
passare interamente
al biologico»

Ha raccontato come è le nato il desiderio di recuperare le tradizioni agricole della sua terra in reazione ai metodi aggressivi imposti da un progetto che aveva portato avanti ai tempi dell’università. Quale modello viene imposto nel mondo?
«Il sistema attuale è dominato da grandi aziende che producono, distribuiscono e vendono, influenzando le scelte alimentari delle persone e definendo a monte disponibilità di cibo e prezzi. Gli alimenti forniti da questo sistema sono, per la maggior parte, ricchi di grassi, sale e zucchero e carenti di nutrienti importanti come minerali e vitamine. Inoltre, la sovrabbondanza di cibo a basso costo fa sì che molti individui e comunità non abbiano accesso a diete adeguate.

Di conseguenza, gli alimenti freschi e minimamente lavorati, negli ultimi decenni sono stati sostituiti da prodotti confezionati e ultra-processati, pronti per il consumo, che si trovano nei supermercati e nei megastore. Abbiamo così perso il senso del valore del cibo. C’è solo il prezzo, che deve essere sempre più basso; ma questo è ingiusto sia per il pianeta sia per chi produce in ogni parte del mondo. Tra i costi da considerare ci sono quelli ambientali e sociali: in primis, per la salute. Vediamo il numero allarmante di persone obese o affette dalle cosiddette Mcnt (Malattie Croniche Non Trasmissibili) in particolare tra i paesi più poveri.

Chi paga questi costi? Non certo chi trae profitto dall’industria alimentare ultra-processata. Piuttosto i contribuenti tutti, anche quelli che si illudono di aver risparmiato sulla spesa. Questo è il punto: siamo stati guidati dall’errata convinzione che basso prezzo equivalga a basso costo. Questo paradigma deve essere cambiato: la salute di tutti noi dipende dal cibo che mangiamo, dobbiamo capire che il prezzo basso significa semplicemente che qualcun altro sta pagando una parte del costo. Se non sciogliamo l’equivoco di fondo, non usciremo mai da questo modello che massimizza i profitti dell’industria agroalimentare e scarica le esternalità negative sulla comunità. Per Slow Food, l’educazione è uno strumento per rendere le persone consapevoli delle conseguenze delle loro scelte alimentari.

Conoscere la stagionalità dei prodotti permette di acquistare il cibo nel momento in cui la natura lo rende disponibile, e quindi più economico; preferire la filiera corta significa approvvigionarsi direttamente dai produttori, riducendo i costi e riconoscendo un maggior valore a chi produce nel rispetto della salute dell’individuo e dell’ambiente».

Venerdì 27 appuntamento a Serralunga «Dall’Uganda alla rete di Slow food»

Venerdì 27 gennaio alle 19 Edward “Edie” Mukiibi sarà ospite del “Laboratorio di Resistenza” della Fondazione Mirafiore a Serralunga, tenuta Fontanafredda, per una “lectio” dal titolo “Il mio viaggio: dall’Uganda alla rete globale di Slow Food”. Per prenotare gratuitamente è sufficiente compilare il form sul sito della Fondazione.

Da dove viene la “rigenerazione”?
«Siamo reduci da un’edizione di Terra Madre dedicata al tema della “rigenerazione”, un concetto che riguarda l’ambiente, l’agricoltura e il sistema alimentare nel suo complesso, ma anche Slow Food come movimento globale basato sulle comunità locali. Terra Madre è un progetto che ha segnato una svolta. Io stesso mi sono avvicinato a Slow Food per la prima volta nel 2008, arrivando a Torino come delegato dall’Uganda. Stiamo lavorando a tutti i livelli della nostra organizzazione per riaffermare con forza ciò che è al centro della nostra filosofia e per preparare il terreno per un futuro di rigenerazione».

Cosa ne pensa della possibilità di nutrirsi di insetti?
«Ci sono culture in cui il consumo di insetti è tradizionale, sono stati e sono tuttora una parte importante delle diete tradizionali in Africa e in America Latina. Sono una delle più importanti fonti di proteine. E sono minacciati dai sistemi agricoli basati sull’uso di pesticidi e insetticidi chimici. Io stesso provengo da una cultura che mangia insetti come parte importante della nostra dieta: in Uganda abbiamo appena chiuso la stagione delle cavallette, una prelibatezza e una fonte proteica molto importante per la popolazione locale. Gli insetti possono essere utilizzati per l’alimentazione animale: alcuni insetti stagionali, come le larve di mosca, sono allevati in molte comunità del mondo come fonte di proteine per uccelli o altri avicoli, in sostituzione dei concentrati proteici industriali ricavati dalla soia e da altre monocolture industriali. Per quanto riguarda il consumo umano, se diventasse un modo per offrire a consumatori che non li annoverano abitualmente nella dieta tradizionale l’ennesimo cibo ultra-processato con additivi, grassi e zuccheri, per renderlo a loro più gradito, ovviamente questo ci vedrebbe contrari».

BaNNER
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