«Sul palco mostro tutte le metafore dell’esistenza»

Abbiamo intervistato l’attore e regista Massimo Popolizio, che sta raccogliendo grandi consensi con “Furore”, presentato anche ad Alba: «Attraverso le vicissitudini della famiglia Joad ciascuno diventa testimone vivo»

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Vercelli, Alba (ieri, mercoledì 30), Sa­vi­glia­no, Novi Li­gu­­­re, grande parte del Torinese: in questo scampolo di cartellone prenatalizio, “Furore” sta girando nel nostro Piemonte, con grande successo di pubblico, che riempie i teatri e ne esce commosso. In scena Massimo Po­polizio e Giovanni Lo Cascio, interprete e percussionista, impegnati in una virtuosa dialettica che è parte integrante della drammaturgia, fitta partitura multisensoriale in cui le parole di John Steinbeck acquistano la terza dimensione, chiamandoci dentro. Ma­gia del teatro e di chi lo sa fare. Di questo spaccato di America del secolo scorso, rac­contato attraverso le vicissitudini della famiglia Joad che dall’Oklahoma emigra in California, diventiamo testimoni vivi, respiriamo la pol­ve­re, avvertiamo il freddo e l’u­­midità di una stalla, proviamo rabbia, indignazione o com­passione, tenerezza, pie­tà.

Popolizio, è incredibile ma “Fu­rore” sembra che parli di noi. È d’accordo?
«“Furore” racconta di un’A­me­rica epica in cui i temi trattati sono metaforicamente va­lidi sempre. La Route 66 che la famiglia Joad attraversa per raggiungere la California sembra materia biblica. Anzi, pen­so che proprio perché si parla di un’epopea profondamente americana si riesca a essere profondamente universali».

Questo periodo di storia americana lo ha già affrontato più volte a teatro, dalla “Lehman Trilogy” a “Il prezzo” di Arthur Miller, incentrato sulla crisi del ’29.
«“Il prezzo” era ambientato in quel periodo, ma più che sulla crisi del ’29, in cui anche la media borghesia si è ritrovata sul lastrico, era incentrato sul rapporto tra due fratelli che si contendevano l’eredità del pa­dre, sull’idea di ciò che ri­ma­ne di un’eredità materiale e su quello che provocano i non detti, i sentimenti e le emozioni inespresse, cattive e buone, nella storia di una fa­miglia. Temi molto milleriani».

Allora restiamo in tema e ve­niamo a “Uno sguardo dal pon­te”, il suo prossimo spet­ta­­colo. Un’anticipazione?

«Il testo parte da un fatto di cronaca, molto italiana, ed è pieno di stereotipi su come ci vedevano gli americani. Biso­gna stare attenti. Si parla di immigrati, di prima e seconda generazione, ma non è una storia di immigrazione: è una storia di passioni, anche violente. Una storia di possessività da parte di un uomo di una certa età che prova amore per la nipote diciottenne, ma non è una storia di pedofilia. Eddie Carbone, il protagonista, è un uomo perbene che compie atti nefasti».

Un uomo malato?
«Un uomo con una patologia in atto da tempo, nel senso che l’amore gli deforma la real­tà. Ma questo lo rende per­sino patetico. C’è una com­­ponente indubbia di divertimento».

Cosa l’ha conquistata di questo Miller?

«La bellezza di questo testo è che procede tutto per flash­back. Consideri che quando inizia l’azione, Eddie è già morto. È proprio teatro di interpretazione».

Nel senso che la storia verrà resa con distacco?
«Non con distacco perché non c’è freddezza, la recitazione sarà estremamente partecipata ma senza retorica senti­men­talistica. Come in “Fu­rore” e ne “Il prezzo”, la partecipazione emotiva ed energetica è forte, ma sempre lontana dalla retorica».

Sono tutti spettacoli prodotti o coprodotti dalla compagnia di Umberto Orsini, oltreché un attore enorme, anche un co­raggioso imprenditore.

«Ormai in teatro la qualità è un lusso. Umberto la persegue perché alla qualità è abituato. Se vivi in case belle, se hai gusto, se hai sempre lavorato in un certo modo, scegliere la qualità è naturale. Ma la qualità la fai per te stesso. Infatti, ci sono spettacoli terrificanti che hanno successo e il pubblico applaude».

Il pubblico si accorge benissimo della qualità.
«Sì, se ne accorge ma non è questo che decreta il mercato».

Comunque, è incoraggiante che un grande vecchio del mi­gliore teatro si adoperi per produrre i giovani.
«Più che i giovani produce me, che non sono più tanto giovane…».

Certo. Però ci passa una ge­nerazione e oltre. È vero che lo dirigerà di nuovo il prossimo anno?

«Farò la regia de “I ragazzi ir­resistibili” di Neil Simon, con Orsini e Franco Branciaroli. Per me non si tratta certo di dirigere due come loro, ma di un atto di affetto, una forma di partecipazione e collaborazione affettiva. Ho lavorato molto con entrambi e quello che farò come regista sarà co­struire dall’interno la piattaforma giusta per loro, visto che è un testo strettamente le­gato agli interpreti. Un testo umoristico ma anche tragico e loro sono anche due grandi at­tori tragici».

Come sarebbe, Neil Simon tragico?

«C’è una scena in cui vengono chiamati in uno studio televisivo per fare il loro varietà co­mico e lì si accorgono che la risata è finta, a comando. In­somma, si rendono conto che è cambiato il mondo e loro si sentono fuori da quel mondo. Una bella metafora della vita. Ma l’aspetto commovente sa­rà che gli attori, soprattutto Umberto, hanno la stessa età dei personaggi».

Proprio Branciaroli, per queste pagine, mi disse che i teatri sono pieni e i cinema vuoti. Co­me vede il cinema italiano?
«A parte i registi conclamati, lo vedo pieno di opere prime, che non hanno seguito. Il problema del cinema italiano è di scrittura, mancano gli sceneggiatori. Il cinema americano, anche le serie, sono scritte in modo strepitoso. Noi, a confronto, non esistiamo».

Ce la caviamo con la cucina. Era per chiederle come ha man­giato nelle Langhe.

«Come vuole che si mangi nel­la terra dello Slow Food? La qua­lità del cibo è stellare, il rapporto qualità prezzo ideale».

Ha le “prove”?
«Rispetto a Milano? Lì sì che sono impazziti. Qui riesci ancora a mangiare e bere molto bene spendendo quaranta euro».

È cambiata la vita per un attore in tournée?

«È cambiato il mondo. Le cu­cine chiudono alle 22 e quando usciamo da teatro troviamo spesso tutto chiuso. Sem­brano le 4 di mattina. A parte il venerdì e il sabato quando si comincia con lo spritz e le città sono piene di adolescenti che bevono come dissennati. Mi si stringe il cuore».

Come passa il tempo libero, ammesso che ne abbia?
«Dormendo».

È vero che ama la campagna e trascorre molto tempo nella sua casa in Umbria?

«È il mio “buen retiro”. Ho l’or­to e gli ulivi e mi piace sta­re lontano da questa dimensione folle di Roma che è diventata la città più maleducata d’Italia».

Ricordo che disse che bisogna sempre lasciare i posti più belli di come li abbiamo trovati…
«Infatti, piantare alberi è un modo. Alberi che magari noi non vedremo mai ma che vedranno gli altri. Io ho ringraziato perché ho trovato una quercia meravigliosa piantata da chissà chi, magari nell’Ottocento. Tutto il di­scorso sulla salvaguardia del territorio vale per gli altri, per chi verrà dopo di noi».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco