«Ritroviamo il coraggio di essere felici»

In vista della visita ad Asti del Papa, IDEA ha intervistato monsignor Viganò: ha curato l’introduzione del nuovo libro del Pontefice

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La gioia come sentimento da riscoprire e antidoto ai mali del mondo. In occasione dell’uscita del nuovo libro di Papa Francesco, “La Gioia” (Elledici) appunto, e della sua prossima visita ad Asti (i dettagli nel box), abbiamo parlato di questi temi con monsignor Dario Edoardo Viganò, autore dell’introduzione del volume e vicecancelliere della Pontificia Acca­demia delle Scienze e delle Scienze Sociali, che noi di Rivista IDEA avevamo già incontrato in occasione di una sua lezione al Campus universitario di Cuneo.
Monsignor Viganò, il 31 ottobre è uscito il nuovo libro del Papa, per cui ha curato l’introduzione. Dov’è nata l’esigenza di questo testo?
«La pandemia prima, la guerra in Ucraina poi e i molti conflitti sparsi nel mondo sembra abbiano fatto dimenticare la logica degli affetti e la grammatica della gioia. Gioia che, come dice Papa Francesco, “non è un semplice divertimento, non è un’allegria passeggera. Piuttosto, la gioia cristiana è un dono dello Spirito Santo”. L’esigenza nasce ap­pun­to dall’offrire qualche suggerimento perché il cuore di ciascuno di noi possa re-imparare la grammatica della gioia, ovvero la capacità di guardare alla storia al modo di Dio. Nel Battesimo ciascuno di noi viene rivestito di gloria, accoglie il dono dell’essere figlio di Dio e per questo possiamo e dobbiamo avere “il coraggio di essere felici!”. E di contagiare con questa gioia il mondo intero».

Quanto bisogno c’è di riappropriarsi di una dimensione gioiosa?
«Ricordando i discepoli di Emmaus che sono in ciascuno di noi quando viviamo la patologia della tristezza, penso a come ci sono sempre delle intuizioni, dono dello Spirito Santo. Mentre i due discepoli prendevano le distanze da Gerusalemme, ovvero avevano archiviato come fallimento l’esperienza con Gesù, insistettero con quello straniero che si era accostato a loro, perché quel dialogo non si interrompesse: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,29). È quella che Carlo Maria Martini definiva la “più commovente preghiera della comunità cristiana dopo la Pasqua. Essa allude alla povertà e alla solitudine del­l’uomo che si fa più evidente nell’oscurità del mondo. Essa chiede che il colloquio di speranza si prolunghi”».

Cosa provavano i due discepoli?
«I due discepoli avevano ricevuto come un’intuizione del cuore che qualcosa stava accadendo dentro di loro già lungo il cammino (“Ed essi dissero l’un l’altro: ‘Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?’”, Lc 24,32). La novità, che avevano iniziato a percepire e a intuire, nasce dal fatto che Gesù, viandante per loro sconosciuto, nel cammino ha spiegato le Scritture, ha cioè messo in luce le tensioni profetiche riferite al Messia. Del resto, la Lettera agli Ebrei ricorda che “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Proprio la “parola che discerne sentimenti e pensieri del cuore” orienta i discepoli a non cercare più un Messia nel trionfo, quanto piuttosto a riconoscerlo».

Qual è il suo rapporto personale con il Santo Padre? So che il Papa è un appassionato del cinema neorealista.
«Nel tempo e per motivi di ministero con il Santo Padre più volte abbiamo condiviso riflessioni sul cinema, su quello neorealista in particolare. Quel cinema che definisce catechesi di umanità e che rimanda ai suoi affetti da bambino con la nonna e la mamma. Con Papa Francesco ho poi avuto la possibilità di organizzare e condurre in tutte le fasi progettuali, produttive e distributive, il film di Wim Wenders, “Papa Francesco-Un uomo di parola”. Molti gli aneddoti, dallo shooting nei Giardini Va­ticani con i pappagalli che sembravano darsi appuntamento proprio mentre si girava, al primo incontro nel quale c’era il Papa naturalmente con il proprio abito bianco e Wenders con un completo anch’esso bianco. Simpatico!».

Il Pontefice si sta battendo contro la guerra. Qual è il suo ruolo per il ripristino della pace?
«La pace è bene prezioso che ogni popolo è chiamato a custodire perché significa sviluppo, inclusione, cura del creato. Ed è anche ciò che Gesù ha consegnato a tutti i discepoli. Le grandi religioni hanno la responsabilità di custodire e coltivare ogni dinamica possibile perché ci sia la pace. Il Papa, in ogni occasione, richiama tutti, ciascuno per le proprie competenze, dai governi ai capi delle religioni, a fare qualcosa perché si interrompa questa assurda catena di morti. È necessario dialogare, costruire un mondo di pace. Occorre che tutti gli uomini di buona volontà aprano il cuore e ascoltino il pianto delle madri, le lacrime delle donne rimaste sole, il gemito dei giovani soldati costretti a lasciare tutto per muoversi tra i corpi lacerati lasciati sul campo. La storia dell’umanità è iniziata con Caino che uccide Abele. Che questa catena di morte si interrompa per dono della “Pace” che dal Padre invochiamo».

Come è cambiata oggi, a livello comunicativo, l’influenza esercitata dalla Santa Sede e dal Pontefice?
«Nell’enciclica “Fratelli tutti”, Papa Francesco, pur riconoscendo alcuni aspetti positivi dei media digitali e dei social media in particolare, riafferma con forza che per essere comunità non è assolutamente sufficiente la community. Accettare la sfida dei social significa accettarne di conseguenza anche le logiche. Per questo, sul tema della Chiesa in rete c’è grande e utile dibattito. Per esempio, la comunità è espressione di un’unità che sa fare spazio alle differenze mentre le community sono espressione di omologazione al punto che chi dissente dalla visione ideologica della community viene espulso. L’influenza per la Chiesa non è accettare di essere influencer, ma di essere autorevole per la forza testimoniale che saprà offrire al mondo».

Papa Francesco sarà ad Asti. Quanto occasioni simili possono avvicinare la Chiesa alla gente? Cosa rappresenta il legame del Santo Padre con le sue radici?

«Le visite del Papa sono sempre occasione di prossimità ai territori e alla gente, alle loro storie, al loro vissuto. Certamente, il viaggio nelle terre delle origini della propria famiglia è occasione di gratitudine e di memoria».

Articolo a cura di Domenico Abbondandolo