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«Racconto Dante perché dovremmo amarlo di più»

Un romanzo e un film sul Poeta, l’operazione culturale di Pupi Avati: «La gente ha capito»

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Un libro e poi un film su Dante, tanto per ribadire la qualità e l’originalità di un regista tra i più significativi di sempre. Pupi Avati compie 84 anni proprio oggi (giovedì) e questa intervista vuole essere anche un piccolo tributo di IDEA alla sua carriera.

Dove nasce l’esigenza di rappresentare Dante Alighieri con un romanzo e un film?
«Mi sono sempre chiesto perché nessuno avesse mai osato avvicinarsi a quella figura. Probabilmente per un complesso di inadeguatezza trasmesso dalla scuola che – almeno per quanto mi riguarda, parlo di decenni fa – era dissuasiva nei suoi confronti. La dismisura poetica e l’onniscienza di Dante lo rendevano remoto e inspiegabile, non aveva nulla di umano. E non c’è stato mai un momento, nell’insegnamento dei miei professori, che mi abbia aiutato a identificarmi in Dante. Poi a un certo punto della mia vita ho cambiato atteggiamento verso lo studio, sono diventato autodidatta (bisognerebbe esserlo sempre in tutte le cose della vita) e ho scoperto la “Vita nuova” trovando il grimaldello che mi ha aperto, anzi spalancato, il suo diario d’amore per Beatrice. È un prosimetro così attuale e commovente che mi ha fatto scoprire un suo lato umano che non mi sarei mai aspettato. Così ho pensato che fosse una lieta novella da diffondere, con spirito rosselliniano…».

Ovvero?
«Roberto Rossellini ebbe un intento didattico, scopriva cose e sentiva il dovere morale di condividerle attraverso il suo cinema e la tv: ecco, io ho provato la stessa cosa nei riguardi di Dante».

Ultimamente però ci sono molte più attenzioni, in generale, per Dante.
«Sì, ma sempre con cautela e con un eccesso di rispetto».

E nel cinema?
«Nel cinema mai, questa è una colpa gravissima. Ho cercato di rimediare con il mio racconto ricorrendo a un mediatore, perché non potevo permettermi di raccontare Dante tout court. Anche perché di lui si sanno ancora poche cose. Fortunatamente c’è il viaggio di Boccaccio, storicamente accertato, che va da Firenze a Ravenna a trovare la figlia di Dante con il compito di risarcirla, ed è un pretesto narrativo formidabile.
Boccaccio poi ha scritto il “trattatello in laude di Dante”, la sua prima biografia».

Che cosa c’è nel romanzo che manca al film o viceversa?

«Nel romanzo ci sono gli indugi, un lusso che il cinema con i suoi 24 fotogrammi al secondo e le sue urgenze di sintesi non può permettersi. Io poi dovevo tenermi alla larga dallo stile della fiction televisiva per non compromettere Dante».

Nei suoi lavori si torna spesso al Medioevo.
«Questo è l’imprinting che mi deriva da una vecchia collana di libri, con cui ebbi confidenza da bambino. Erano qu­elli della “Scala d’O­ro” Utet, raccolta di volumi per ragazzi dedicata al ciclo di Re Artù. Quel mondo di cavalieri, specie negli anni remoti dello sfollamento che ho vissuto da Sasso Marconi, ha veramente irretito il mio immaginario e ho sempre provato nostalgia per il medioevo cavalleresco. Poi con la consapevolezza della maturità, il fascino è stato alimentato dagli analisti francesi verso un alto medioevo di cui gli storici italiani si sono occupati pochissimo, liquidandolo come un’epoca di secoli bui. Io feci un film, “Magnificat” riscoprendo quei testi. In campo accademico ebbe grande successo. Ha vinto tre premi di medievalistica tout court, non cinematografica».

Cosa è stato il medioevo?
«Un millennio luminosissimo e soprattutto intriso di quella sacralità verso la quale provo una grande nostalgia, perché è parte della cultura contadina nella quale io sono cresciuto e che sacralizzava tutto. Non c’era un momento della giornata senza riferimenti al sacro. Pur nel clima di violenza atroce di quegli anni – da non sottovalutare – c’era tuttavia un senso del sacro legato al lavoro e alla suddivisione del tempo in cui io, misteriosamente, mi riconosco».

Valori che ha ritrovato quando girò nel 2009 a Cuneo “Gli amici del bar Margherita”?
«Dovunque è rimasta quella cultura, trovi riverberi forti. A Cuneo è rimasta fortissima. Io l’ho immaginata parassitariamente per rappresentare la Bologna anni ’50 con i suoi portici. Ricordo anzitutto per me e mio fratello un riconoscimento raro: la cittadinanza, la consegna delle chiavi della città. E poi il coinvolgimento di un’intera comunità. Sono ricordi belli di un film che si è installato definitivamente lì. Veramente siamo stati accolti con un grande rispetto e un senso di accoglienza che è difficile trovare altrove».

Sta già pensando a un nuovo film?

«Sì, ma non si deve commettere l’adulterio di presentare un nuovo film mentre ancora ce n’è un altro che fa presa sul pubblico. Sarebbe come tradirlo».

Che cosa le lascia l’esperienza di approfondimento su Dante?
«L’idea che il Paese sia molto meglio di come viene descritto. Il problema è sempre dei vertici, l’inadeguatezza dei committenti. Penso si debba tornare a essere ambiziosi. Io non sento più dire “facciamo un bel film”, si parla solo di incassi e spettatori. Lo capisco bene, perché alle cifre è legata la sopravvivenza di ogni azienda. Però ne parlavo l’altro giorno con Paolo Virzì: non escluderei che si debba valutare un ridimensionamento dei numeri (non avremo più le sale strapiene di un tempo), ma il pubblico c’è. Io sono arrivato a oltre 200mila spettatori per un film che si chiama “Dante”, ed evoca i ricordi negativi del periodo scolastico: comunque in 200 mila sono andati al cinema, hanno pagato il biglietto».

Che cosa significa?
«Pietrangelo Buttafuoco ha detto che questo film può rappresentare l’avvio di un genere, con un approccio diverso da quel cinema carino e ammiccante che ti entra da un orecchio ed esce dall’altro. Può essere ambizioso e di sostanza, magari senza gli incassi che fa Checco Zalone ma che dà un senso a tutto e ti lascia la sensazione di aver fatto un’impresa».

La cultura paga?

«La cultura paga sempre. Spero che con la nascita del nuovo governo, possa esserci un segnale positivo, magari una nuova legge. Il Ministero dei beni culturali è sempre poco citato o ambìto, ma dovrebbe essere uno dei più importanti».

BaNNER
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