Sonia Bergamasco «Una Cassandra amorosa»

L’attrice nei panni di una figura metafora di preveggenza inascoltata: «C’è rabbia ma anche un’ironia amara per ciò che non è stato fatto. Lei non si è ancora stancata di reclamare il nostro ascolto e torna a parlare un’ultima volta»

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Ci chiama “maledetti” eppure la sua è una “minaccia amorosa”. Cas­sandra, figura tragica divenuta metafora di preveggenza inascoltata, ritorna a gridare il suo dolore nelle parole di Ruggero Cappuccio e attraverso la voce e il corpo di Sonia Bergamasco, interprete di “Resurrexit Cassandra”, spettacolo diretto da Jan Fabre in cui, dice l’attrice, «la profezia si fa quasi cronaca».
C’è molta rabbia nelle parole di questa Cassandra, anche se prova a risorgere un’ultima volta per avvertirci. Si parla di agonia dei ghiacciai, di arcipelaghi di plastica che galleggiano sul mare.
«C’è rabbia ma c’è soprattutto un’ironia amara rispetto a quel che poteva essere fatto e non è stato fatto. Ma questa Cassandra non si è ancora stancata di reclamare il nostro ascolto e ritorna a parlare un’ultima volta».
Un’intimidazione nei confronti di noi distruttori di tutto quel che di buono ci è stato dato?
«Sì ma amorosa. Il testo tutto è intessuto dell’elemento amoroso che è anche la ragione del suo ritorno».
Non le chiederò di profetizzare sulla riuscita ma entriamo nel merito di questo allestimento. Ho notato un’attenzione particolarissima ai costumi. Mi verrebbe voglia di spoilerare.
«Dico solo che la prova costumi è cominciata prima delle prove vere e proprie. I costumi di Mika Campisi sono fondamentali per definire i mutamenti di questa figura, i suoi nuovi assetti, il suo trascolorare che ha a che vedere con la natura sacra e polimorfa. Ogni mutamento porta con sé nuove parole, nuova energia e chiede una concentrazione diversa rispetto a quel che si dice».
Anche le musiche sono parte della drammaturgia.
«Jan Fabre ha voluto che Stef Kamil Carlens, autore delle musiche, fosse presente fin dall’inizio. La colonna sonora infatti è stata composta seguendo passo passo le prove, secondo le indicazioni del regista. Credo che intrecciare la parola con il tessuto musicale sia stata un’idea vincente che fa di un monologo una sorta di dialogo».
La musica è anche il suo imprinting: lei è diplomata in pianoforte, oltreché alla scuola del Piccolo Teatro di Milano.
«La musica è la mia prima lingua, estremamente radicata, il mio alfabeto. Ogni volta che sento una linea musicale mi sento aiutata e ricerco sempre un dialogo: per me è una necessità. Ma è anche la realtà profonda del fare teatro. Cassandra parla una certa lingua ma tutti i personaggi parlano una loro lingua. Ed è affascinante scoprire il ritmo interno di ognuno, il respiro profondo, è necessario mettersi in ascolto».
La sua Marta di “Chi ha paura di Virginia Woolf”, la commedia di Edward Albe e diretta da Antonio Latella, con cui sarete in tournée in questa corrente stagione, che lingua parla?
«Rispetto a Cassandra parla una lingua completamente diversa e chiede di sintonizzarsi su un’altra linea musicale, ma l’attenzione deve essere la stessa. Si tratta di sentire quel che il personaggio ti offre».
Come ha lavorato sugli umori di Marta quando rincasa ubriaca con il marito?
«Anche in questo caso la musica è fondamentale per raccontare questa storia notturna, estrema. In scena c’è un pianoforte verticale e si suona e si canta. Marta è una donna eccessiva ma carica di amore. È la possibilità ulteriore di amore che tiene insieme la coppia, pur nel suo divorarsi, nel suo gioco al massacro».
Facendo un passo indietro nel suo percorso mi viene in mente L’uomo seme, il testo di Violette Ailhaud che ha portato in scena qualche anno fa. Una riflessione dolente sulla forza delle donne, che si ritrovano sole, dopo che tutti gli uomini sono stati uccisi in guerra o deportati.
«Contestualizzare oggi quello spettacolo è molto doloroso. Il mio primo riferimento era stato un libro di Svetlana Aleksievic, La guerra non ha il volto di donna, in cui si racconta della lotta eroica fatta dalle donne russe per i loro uomini, un eroismo agito, non sbandierato che poi non è stato nemmeno riconosciuto. La guerra ci riguarda tutti ed è sempre un disastro».
A proposito di libri, mi racconta come nasce Il quaderno, il suo libro di poesie edito da La nave di Teseo?
«Nasce con una linea autobiografica ma sganciata dal naturalismo. Una bambina che si guarda allo specchio e si fa spazio nel vuoto dell’immagine. È un piccolo viaggio in versi – poesie, elegie, filastrocche – mosso da tre fili rossi che si intrecciano: il tema del corpo, per me centrale sia come attrice sia come donna, l’infanzia, la memoria. Ora però questa bambina è cresciuta e viene raccontata, corpo e voce, dalla donna. Il quaderno di Sonia infatti è il concerto spettacolo che ne è derivato, con musiche composte e interpretate da Fabrizio De Rossi Re e con Fabio Battistelli al clarinetto. La mia è una scrittura pensata per essere detta, dove la parola è carnosa, tessuto mobile raccontato attraverso la vocalità».
Terminiamo con due battute su due giganti che sono stati suoi maestri: Giorgio Strehler e Carmelo Bene.
«Credo che entrambi mi abbiano scelta perché ero musicista. Ero diplomata al Conservatorio e non pensavo di fare l’attrice. Strehler era già una figura leggendaria e incuteva un certo timore, ma poi in realtà era molto divertente».
Carmelo Bene era davvero così folle e imprevedibile?
«Sì ma era un lavoratore accanito e viveva il teatro come esperienza musicale. Per me è stato come andare a bottega».

L’opera “Resurrexit Cassandra” andrà in scena al Teatro Vascello di Roma dal 4 al 9 ottobre.

Articolo cura di Alessandra Bernocco