La cronaca è nota: Investindustrial si è presa il 52% di Eata­ly lasciando alla famiglia Farinetti il 22%. Nuovi manager e, con Andrea Bonomi (foto sotto) al vertice, una gestione più manageriale. Forse meno punti vendita (fuori dal Piemonte) e soluzioni inedite tra aeroporti e autostrade. Ma anche un cambio di prospettiva per quella che è stata fin qui un’avventura straordinaria all’insegna del cibo italiano d’eccellenza? Lo abbiamo chiesto all’ex amministratore delegato Nicola Farinetti, che assumerà la carica di presidente dell’azienda ideata e lanciata da papà Oscar.

Eataly ha radici in Piemonte: che cosa succederà con il nuovo corso?

«Abbiamo tantissimi prodotti piemontesi e la maggiorparte del fatturato arriva dal Piemonte. Nulla cambia, l’assetto resta italiano e il nuovo progetto è pienamente condiviso: una prospettiva fantastica per tenere in vita l’idea di Eataly».

Con le caratteristiche di sempre legate al territorio?
«Certo, sono le caratteristiche che hanno reso il progetto vincente. Lo stesso Bonomi ha detto che la visione è al cento per cento quella giusta, noi daremo una mano dal punto di vista logistico, manageriale e organizzativo, per rendere il successo più allargato a tutto il mondo. I nostri valori sono stati sposati da tutta la compagine sociale».

Quello che cambia è il maggiore impulso rivolto all’estero?
«È l’obiettivo dell’operazione, oltre a garantire un ulteriore sviluppo. Per rendere Eataly ancora più italiana. L’operazione ci è servita anche per comprare negli Stati Uniti la società che prima era nostra al 60 per cento mentre il resto era di proprietà di soci locali, per noi quel pezzo d’azienda era molto importante, proprio per riuscire davvero a fare tutto, a sviluppare il progetto. Siamo felici ed eccitati per il futuro».

L’inaugurazione del punto vendita di New York resta l’evento che ha segnato una svolta?
«In America ci sono 350 milioni di abitanti che amano l’Italia, vogliono essere come noi, vestire e mangiare come noi. Eppure, portiamo ancora poco prodotto, dobbiamo poter sviluppare più prodotti nostri, farli vedere e raccontare. E non solo a New York e Los Angeles, in tutti gli Usa. È fondamentale per l’Italia cavalcare questo momento e aumentare le esportazioni. Noi siamo pronti a dare una mano».

Questo però accade in una fase mondiale complessa.
«Sicuramente il mondo non vive un momento felice, però lo è ancora meno dal punto di vista della sicurezza prima che finanziario. La situazione è più difficile in Europa che negli Stati Uniti, ecco perché dobbiamo puntare a sviluppare le attività in quell’area nell’attesa che anche qua si torni alla stabilità. Noi abbiamo la fortuna di lavorare nel mondo della qualità che, da sempre, è un grande traino, è pagata il giusto. Chiaro che abbiamo una grande voglia di raccontarla al meglio».

È un concetto che resta attuale sul mercato globale?
«Sono stato a Terra Madre Salone del Gusto, a Torino, e abbiamo parlato assieme a Slow Food del progetto “prati stabili”, i terreni lavorati da animali che rappresentano una ricchezza per l’ambiente che dobbiamo difendere. Da qui parte la qualità».

È possibile far condividere agli americani questi concetti?
«È un paese grande, in alcune città il messaggio arriva meglio, in altre meno ma il concetto è stato condiviso e mi piace pensare – poco umilmente – che noi ne siamo stati promotori quando abbiamo aperto Eataly a New York aiutando l’America a capire l’idea del cibo di qualità. Ma è ancora un mercato da conquistare, il più rimane da fare».

Sarà questo il compito di Eataly?
«Esatto: essere un canale di vendita per i prodotti di altissima qualità che magari all’inizio faticano a trovare spazio, poi qualcuno inizia a crederci e ce la fa. Non è facile adesso, ma è il momento di investire per uscirne poi più forti».

Suo padre ha lanciato mesi fa la provocazione di un’Italia certificata bio: che ne pensa?
«Quando papà racconta le sue idee, vanno letti i messaggi sottostanti. Noi siamo in un paese di dimensioni ridotte che tutti amano, c’è voglia di comprare i nostri prodotti. Allora dobbiamo sviluppare la crescita verso la pulizia e la qualità di un prodotto alto, non di bassa qualità perché abbiamo tutto un mercato che può pagare. Certo che vivere in un Paese certificato solo con prodotti biologici e sostenibili sarebbe magnifico».

Alba e le Langhe, a proposito di territorio, sono in questo senso un modello vincente?
«Basta guardare, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, quello che è riuscito a fare il mondo del vino dove mio padre ha investito tanto: ha tenuto botta, ha aumentato i prezzi, è diventato sempre più premium. Bisogna investire nella terra. E se la terra è buona, l’uva lo è ancora di più».

Farinetti, da Ceo a presidente: che cosa cambierà davvero?
«Andrea Bonomi o chi per lui sarà amministratore delegato come lo sono stato io e come Andrea Guerra prima. Anche lui dovrà fare le sue scelte, seguire una visione. Io resto come presidente perché questa azienda ha un suo Dna e devo continuare a essere vicino all’amministratore delegato per far capire cosa siamo e quali valori abbiamo, anche per tutti nostri i dipendenti, per poter dirigere l’azienda verso questo sviluppo immaginato e condiviso. Guardate che questi deal non si fanno mai solo perché uno vende e l’altro compra, ma quando c’è una visione comune. Noi restiamo secondi azionisti, ci teniamo tanto e questo è un matrimonio: abbiamo guardato il futuro insieme e abbiamo visto che possiamo fare sempre meglio».