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«I piloti delle frecce fanno squadra e vincono insieme»

Il mental coach Leonardo Milani ha affiancato gli acrobati tricolori per venti anni: «Un privilegio»

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Leonardo Milani, psicologo, 66 anni, è stato per quasi vent’anni il mental coach delle Frecce Tricolori. Qualche giorno fa, ai Ronchi Verdi di Torino, ha partecipato per Alambicco Academy di Gabriele Zanon a un incontro con le aziende. Perché quello del gioco di squadra è un tema sempre strategico. «All’inizio della pandemia ho lasciato il mio incarico a un militare – ricorda Milani -. Ero entrato nel 1993, quando l’allora capo di stato maggiore mi chiese se potevo occuparmi di leadership all’interno dell’aeronautica. Io ero e resto un civile, me lo chiese perché aveva visto nella mia metodologia qualcosa di interessante. Dopo qualche anno, l’ispettore della sicurezza mi fece entrare nella squadra delle Frecce Tricolori».

Quale fu il primo passaggio?
«Avevo esperienza di simulatori mentali, all’inizio il lavoro fu incentrato sulla ricerca di strumenti efficaci nella formazione, l’aggiornamento e la precisione, infatti coniammo il termine “zero errori”, inteso come l’attitudine, quell’atteggiamento che evidenziamo con una leggera ossessione per la perfezione».

E poi quali compiti le furono assegnati?
«Mi hanno chiesto un po’ di selezione perché chiaramente neanche lì si può sbagliare. Serviva una mia visione sulle personalità, l’idea era scegliere non i migliori piloti in assoluto ma i migliori che sapessero lavorare in team. C’è stata una forte evoluzione dall’incidente di Ramstein nel 1988 e ora le Frecce rappresentano un marchio di riconosciuta eccellenza italiana nel mondo».

L’errore è il primo nemico di quei piloti?
«In realtà volare in acrobatico diventa per loro come andare in macchina, la paura non è quella di sbagliare. C’è stata grande evoluzione nella sicurezza, magari il pubblico vede una roba da pazzi ma tutto è codificato, il primo obiettivo è la sicurezza. La vera paura è di non essere all’altezza del brand e degli altri piloti, quindi subentra l’orgoglio personale: devo sentirmi adeguato e fare le cose benissimo, però l’idea “zero errori” è importante. Certo, non possiamo pensare di non sbagliare mai, in realtà l’atteggiamento della rigorosità nei dettagli è un po’ come togliere le posate dalla lavastoviglie per metterle nel cassettino giusto. Una sorta di maniacalità non ossessiva che rende bene l’idea su quanto ci tengono quei piloti a essere perfetti».

E se capita l’errore?
«Nessuno giudica, nessuno valuta la persona ma la manovra. Tutti collaborano al risultato, sono propositivi. L’erro­re diventa valore aggiunto per migliorare il processo di percezione. In azienda sarebbe fondamentale».

È mai salito su uno di quegli aerei?
«Sì e vi assicuro che è un bel delirio, altro che perfezione. Paura? In realtà tanta fatica, la forza di gravità ti spreme l’anima e per non svenire devi fare fatica. Io avevo già 40 anni quando sono salito. I piloti a 35 vengono già pensionati dalle Frecce, entrano a 29 anni, poi a fine carriera tornano nelle basi».

Sono professionisti che fanno solo quello?
«Si allenano 2-3 volte al giorno. Sono selezionati da una commissione di 8-10 piloti a loro volta scelti sulla base di 7.500 ore di volo. Da quelli ne prendono due. Due escono, due entrano. Un interessante concetto di job protection, per non finire in routine che è prima alleata dell’errore. Un metodo, vi assicuro, invidiato in tutto il mondo».

Sono le stesse dinamiche di una squadra sportiva?

«Proprio così. Una squadra che ha un obiettivo: completare lo spettacolo in sicurezza. Per riuscirci i piloti devono essere in totale sintonia, affiatati e in fiducia totale uno dell’altro. Sa, volando a un metro dalle ali a 700 chilometri all’ora…».

E nelle aziende?
«Nelle aziende non avviene, c’è competizione tra le persone. Anche nel calcio: avete presente Del Piero e Inzaghi che nella Juve non si passavano palla?».

Quale ingrediente ci vuole?
«Affidabilità, buone relazioni che aumentano la fiducia. Per dire “so che con me c’è un professionista e posso fare anche manovre alla cieca”».

Quindi immaginiamo che i pi­loti delle Frecce siano anche amici, come vediamo nei film hollywoodiani?
«Non “Top Gun” perché Tom Cruise nel film non rispetta tanto le regole. Però è vero, si crea un movimento di relazioni che trascende la professionalità e diventa affettuosità pur nel rispetto dei ruoli. Loro hanno il vantaggio della disciplina, rispetto alla vitalità aziendale».

Ma i piloti non hanno visibilità.
«Non esiste protagonismo perché sarebbe un errore, toglierebbe armonia alla squadra. Invece l’identità si confonde nel collettivo. Su questo avevamo sviluppato le selezioni, non cercavamo persone troppo egotiche o arroganti».

Non c’è un leader?
«C’è un comandante ma non come ruolo, come esperienza: parte da gregario e, se merita, va su. Viene eletto da altri e quando diventa capo, scende dall’aereo e dirige da sotto, come un direttore d’orchestra».

Sarebbe un modello valido anche per la nostra società.
«Certamente. L’idea è: non lo faccio per me, ma all’interno del contesto dove l’obiettivo è la mission del gruppo, ecco perché nessuno li conosce e non hanno nè popolarità nè soldi. Questo è un tema fantastico per le aziende, dove l’ambizione per le carriere porta a contrasti interni».

Che personalità deve avere il pilota delle Frecce?

«Non devono essere solisti. Sono persone disponibili, generose, altruiste, non egotiche, non vogliono vincere sugli altri ma con gli altri. Per la selezione abbiamo usato anche un test della Nasa che permette di valutare acutamente le personalità».

Che cosa le ha lasciato questa esperienza?

«Un metodo di gestione del team che utilizzo anche per le aziende. È stato come avere a che fare con i campioni olimpici, qualcosa di sempre speciale, un’esperienza di vita».

Una considerazione: ma in tempi di crisi energetica ed economica, non è uno spreco allestire questo spettacolo?
«Considerazione lecita. Ma le frecce non ricevono più sovvenzione statali per il carburante e i piloti hanno stipendi assolutamente nella norma, da poco più di 2 mila euro. Hanno però sponsor. I consumi? Un aereo di quelli consuma un decimo rispetto a un F35. Diciamo poi che questa attività è puro marketing per lo Stato italiano. Le Frecce hanno un valore trasversale, un po’ come la Ferrari. E dopo Ramstein sono nati tanti fan club».

Più difficile formare i piloti del­le Frecce Tricolori oppure gli imprenditori?
«Dove c’è intelligenza, trovo sempre umiltà e voglia di crescere. In questo caso, non ci sono problemi e le differenze sono davvero minime».

Ha mai portato il suo contributo in altri settori professionali?
«Mi è capitato di essere chiamato da un politico. Non chiesi di quale schieramento fosse. Cominciai spiegando che per parlare in pubblico si deve essere autentici. Si alzò e mi disse: ma io devo convincere gli altri, non me stesso. La collaborazione si concluse così».

BaNNER
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