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«Non sono felice se nel mondo troppi soffrono»

Grazia Di Michele, musica e diritti umani: «Racconto storie di donne e tante ingiustizie»

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«Si è sempre felici di ricevere un premio, ma questa volta sono proprio commossa perché mi viene consegnato per il live “Poesie di carta”, dedicato a Marisa Sannia».
Grazia Di Michele avvertiva i suoi fans dalla pagina facebook, il giorno prima di ricevere il Premio Margutta per la musica e ringraziava il presidente onorario Gabriele Salvatores, il presidente Giovanni Morabito e tutta la commissione per questa scelta. Ma prima ancora la scelta è stata la sua: restituire al pubblico la parte meno conosciuta di Marisa Sannia, artista prematuramente scomparsa nel 2008, nota soprattutto come interprete di canzoni d’autore.

«Invece nel suo ultimo periodo si è dedicata completamente alla poesia, prima ai poeti sardi e poi a Federico Garcia Lorca, mettendo in musica dodici liriche del periodo giovanile tra cui “El nino mudo”, “Laberyntos y espejos”, “Aguila de los ninos” e “Rosa de papel”, che dà il titolo all’album uscito postumo, di cui io mi sono innamorata».

Quando è nata l’idea di co­struire uno spettacolo intero su Marisa Sannia?
«Il progetto è partito nella mia mente durante la pandemia ed è stato creato subito dopo, la tournée invece è cominciata il 12 gennaio dal Teatro Golden di Roma. Alle poesie di Lorca, Marisa aveva lavorato tre anni e poi non ha nemmeno avuto la possibilità di promuovere l’album. Io ho preso contatti con la famiglia, poi con il suo produttore storico Marco Piras, che a sua volta ha ricontattato alcuni musicisti. Ho “ereditato” anche il copione teatrale con gli ap­­punti di Marisa e alcuni messaggi vocali che ora fanno parte dello spettacolo».

Com’è strutturato?

«Lo spettacolo contempla tutto il periodo poetico di Marisa, compresi i primi due dischi sui poeti sardi Antioco Casula e Francesco Masala. In scena con me ci sono i suoi musicisti storici: Marco Piras, Fabrizio Fabia­no e Bruno Piccinnu, io ho ag­giunto altri due grandi professionisti, Fabiano Lelli ed Er­man­no Dodaro. La sensazione che abbiamo è quella che lei ci stia camminando accanto».

A proposito di Lorca e della sua idea di arte come sintomo del duende, il demone cre­ativo, le chiedo come na­scono le sue canzoni.

«Io non scrivo mai a tavolino. Le canzoni partono da sole, sento qualcosa dentro di me che mi smuove, una lucina che si accende. A volte, se sono in macchina, mi devo addirittura fermare per registrare imme­dia­­tamente un vocale. Non mi sono mai messa a costruire senza prima avvertire un moto interiore».

Molti suoi lavori sono condivisi con donne, amiche e colleghe artiste come Rossana Ca­­sale, Irene Fargo, Mariella Nava, Or­nella Vanoni, Tosca. C’è qualcosa che identifica più di altro la collaborazione al femminile?
«Io ho collaborato anche con molti colleghi uomini e non trovo che ci sia una differenza sostanziale tra la complicità con le donne e con gli uomini. Forse alla base della complicità femminile c’è la voglia di raccontare storie di donne. Io lo fac­cio fin dagli inizi, quando scri­vevo le prime canzoni con mia sorella Joanna e con il gruppo Ape di vetro fondato negli an­ni settanta con Chiara Scotti e Clelia Lamorgese. Irene Fargo (scomparsa nei giorni scorsi, ndr) era bella dentro e fuori, intensa e leggera, una vera artista. Mi ha chiesto una canzone e io le ho dato “Ti do una canzone”, poi abbiamo deciso di cantarla insieme».

Cos’è cambiato da allora?
«Dopo quarant’anni mi accorgo che è cambiato ben poco. Continuiamo a essere considerate l’anello debole della catena. Oggi assistiamo a un femminicidio ogni due giorni e Trump esul­ta perché alle donne è stato negato il diritto all’aborto».

Qual è stata la sua reazione a caldo dopo avere appreso del­l’abolizione della sentenza sul diritto all’aborto da parte della Corte Suprema americana?
«Sono rimasta scioccata. Un sal­to indietro terrificante. Vietato persino in casi di stupro e malformazioni gravi. Il fatto che la decisione spetti a ogni singolo Stato in base all’orientamento politico e non alla libera scelta della donna è inaccettabile. An­cora una volta le battaglie politiche si giocano sulla nostra pel­le».

I diritti civili, e non solo delle donne, le stanno molto a cuore e il suo lavoro lo testimonia ampiamente.
«I diritti di tutte le diversità vanno salvaguardati, a cominciare dalla libertà di autodeterminazione. Se non danneggi nes­suno, allora nessuno ha il diritto di decidere al posto tuo chi devi essere e cosa devi fare».

Mi parla del suo spettacolo con Platinette “Io non so mai chi sono” in cui lei ha portato in scena un burqa?
«Il titolo è mutuato dall´inciso di “Io sono una finestra”, la canzone che abbiamo presentato a Sanremo nel 2015 e lo spettacolo affrontava il tema del­l’identità proprio a partire dalla sua perdita. In scena, ad un certo punto, una donna indossava il burqa mentre venivano lette le regole agghiaccianti dei talebani. Anche io ho provato ad indossarlo e, a parte la sensazione di soffocamento, l’umiliazione, il disagio, ho capito perché molte donne non potendo guardare la strada, dove mettono i piedi, cadono a terra rompendosi le ossa. Credo sia im­portante provare sulla propria pelle cosa significhi, mettersi sempre nei panni degli altri, anche quando sono dei sudari».

E lo spettacolo è di alcuni an­ni precedente al ritorno dei Ta­lebani in Afghanistan.
«È che purtroppo, come dico spesso, crediamo di costruire ponti e poi ci accorgiamo che siamo su una ruota, che si ritorna indietro».

A proposito del mettersi nei pan­ni altrui mi viene in mente lo spettacolo diretto da Mad­dalena Fallucchi “Di’ a mia figlia che vado in vacanza”, in cui debuttò in teatro accanto ad Alessandra Fallucchi. Una storia dura ambientata in un carcere per la quale volle fare esperienza diretta.
«Una commedia tragica sulla condizione di due detenute. Sono stata nel carcere di Ivrea, grazie all’intercessione di un amico per girare il video, era metà agosto, mi sono trovata in una cella qualunque senza persiane, un caldo terribile, una condizione invivibile».
E anche qui non mi pare che la situazione delle carceri sia migliorata. Come continuano a esistere i bambini soldato, tema affrontato in “Chiama­lavita”, lavoro scritto e prodotto da Maria Rosaria Omag­gio, rappresentato anche al Pa­lazzo delle Nazioni Unite di New York nel 2005.
«Uno spettacolo nato all’interno di una campagna di sensibilizzazione sullo sfruttamento dei bambini soldato che contiene testi di Italo Calvino e Sergio Liberovici e anche estratti da “Il sentiero dei nidi di ragno”. A New York siamo arrivate dopo tre anni di repliche in Italia e all’estero. Oltre allo spettacolo è stato inciso un album omonimo i cui proventi sono stati devoluti all’Unicef».

E l’ultima traccia, che si intitola Il padrone del mondo e dice «basta che alzi una leva e ti spengo la luna» mi ricorda la scena de “Il grande dittatore” con Chaplin e il mappa­mon­do.
«Infatti c’è molta gente che si sente padrona del mondo e del pianeta. La terra non è solo quella che calpestiamo ma quella da cui veniamo, la Terra siamo noi, come dice il leader spirituale Thich Nhat Hanh, distruggere la terra vuol dire distruggere noi stessi, amarla equivale ad amarci. Eppure non la stiamo proteggendo, c’è troppa gente che muove le leve sbagliate con troppa incoscienza, vedi Bolsonaro tanto per fare un esempio. Lo stesso vale per le guerre, ce ne sono troppe in giro».

Allora finiamo con “Madre Terra” il singolo uscito lo scor­so anno definito un mantra ecologista.
«Una preghiera laica di otto minuti con relativo video firmato da Ari Takahashi, da cui ha preso spunto il tour estivo intitolato “Terra!”, che vede Fabri­zio Mocata al piano ed Eleonora Bianchini all’ukulele e alle percussioni».

È difficile trovare delle ragioni per non essere pessimista?
«Io ci provo e mi alzo ogni mattina celebrando il nuovo giorno, ma poi ascolto i notiziari e mi chiedo come posso essere felice se non sono felici gli altri».

BaNNER
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