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«Scrivere canzoni è come un vetro che prende forma»

Gianluca Grignani prepara “Verde smeraldo” «Con il nuovo album vorrei stupire le persone»

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«Non date mai a un poeta una chitarra, vi racconterebbe quello che i poeti nascondono in fondo al fiu­me della tristezza e il resto del mondo potrebbe scambiarlo per un grido di guerra».
Gianluca Grignani è andato dritto al cuore del «resto del mondo» con questa messa a nudo in forma di monologo che fece alle Iene un po’ di tempo fa.
E la sua storia, i suoi testi, la sua musica sono come un fiume carsico che ogni tanto sale su, portando a galla grumi di sofferenza taciuta che, sciogliendosi, urlano e brillano e consolano. Sono semi che germinano, refrain dell’anima, inquietudini che hanno trovato nel corso del tempo nuove forme ed evoluzioni, attraverso pa-role che ritornano, espressioni che si ripropongono con toni, colori, accenti diversi, ma sempre portandosi dietro una verità scorticata che non lo abbandona.
Verità che si traduce in istantanee di vita – onirica, quotidiana, furibonda, pacificata – travolte in un attimo dalla musica che monta e gli si rovescia addosso come un incontro inatteso mentre «era lì che stava bene, era solo con gli amici» o come il «super ricordo» di un naufrago che guardandosi in­die­tro cerca un approdo. In versi strutturati che vivono di ritmica, assonanze e consonanze, figure retoriche che sembrano nate lì per lì, usate senza fare retorica, ellissi da riempire con un «sai» rivolto a chissà chi – una donna, un amico, il cielo, un figlio, un cane, o anche solo un paio di occhi che ti intercettano -. Di certo arriva a chi «si è perso nell’oceano», a chi resta ore e ore «a guardare le onde contro un muro girare», a chi «a volte esagera» e si sente perseguitato dal suo «peggior nemico», il nostro Joker che avanza o sale su dalla pianta dei piedi come un “memento mori”, il passo cadenzato, scandito da quel sommesso ostinato ritmico della chitarra che sa di minaccia e spauracchio incombente. Salvo che poi lo guardi in faccia, il tuo Joker, e lo metti in standby, per riprendere il volo, come il suo «falco a metà» o come chi, «se non ce la fa più, guarda in su». E se non sarà proprio il sole, sarà «il profumo di viole» a indicargli la strada. «In mezzo al cielo» ma verde speranza, anzi smeraldo, come i prossimi album, una tripla promessa che attendiamo da un po’.
A parte i cinque singoli già usciti, ci dà un’anticipazione di “Verde smeraldo”?
«È un progetto ampio con una lunga gestazione, ma molto spontaneo. Mi auguro di stupire la gente: solitamente se stupisco me stesso, stupisco anche gli altri».
A proposito di “A long good bye” parlò di sofferenza capitalizzata in un quarto d’ora. Come nasce una canzone?
«Da quando ho ricevuto i primi riconoscimenti per il valore letterario dei miei testi, mi sento più libero e consapevole. Mi sono ispirato ai miei miti letterari ma i testi sono soprattutto legati alle storie delle persone che ho incontrato. Quan­do sento qualcosa di nuovo provo a capire se realmente funziona, a volte in un quarto d’ora, a volte in un mese. Hai presente il vetro di Murano quando ci soffi dentro per farlo diventare una bottiglia, per esempio? Con la musica è lo stesso, tu soffi dentro quel pezzo di vetro caldo e tutto prende forma; questa è la sensazione che ho quando scrivo una canzone».
Ci sono motivi e parole, nei suoi testi, che ritornano. Pen­so per esempio a “Ben­venuto nel gioco” in cui scrivendo «è fragile e strana questa natura umana» anticipa “Natura umana”, di cinque anni successiva. Mi chiedo se ci sia consapevolezza oppure semplicemente sono pensieri che arrivano con le stesse parole.
«Spesso sono pensieri che arrivano con le stesse parole, non seguo schemi precisi. Alcune frasi a volte ritornano; sono sensazioni, sentimenti che una persona prova durante le fasi della vita e spesso in situazioni differenti si possono provare emozioni simili».
L’aggettivo “fragile” ricorre molto spesso, oltre a dare il titolo a un brano. Cos’è la fragilità per lei in questo momento?
«Ciò che ho sofferto di più nell’ultimo periodo è stato non poter avere contatti con il mio pubblico, ritrovarlo a Sanremo è stato bellissimo, mi ha dato una carica pazzesca».
Oggi a che Santo dobbiamo votarci per continuare a «non credere a un mondo che rotola indietro»?
«Al santo che ti tatui sulla pelle. Il mondo oggi sta rotolando indietro, ogni giorno i giornali e la televisione ci raccontano situazioni drammatiche di fronte alle quali ci sentiamo impotenti. In tutto questo caos ci rimane la musica, l’arte e la poesia. Ecco, forse queste sono le uniche cose che ci tengono in vita».
“La terra è un’arancia”, del 2005, è una sorta di ammissione di colpa nei confronti della terra, maltrattata dagli uomini. Perché non la canta in concerto lanciando un invito a rispettarla davvero?
«È un’idea. Ho scritto questo brano in aereo mentre tornavo dall’Argentina. Mi piaceva tantissimo ma pensavo che il pubblico non l’avesse recepito, invece oggi mi rendo conto che non è cosi. Era una canzone oltre i tempi, amo quel brano».
«Sarai di compagnia però sei una malattia». Chi è Mrs Noia e dove cercare consolazione se vogliamo fare a meno di lei?
«Io di solito dedico le canzoni a persone immaginarie o a come vorrei che fosse una persona reale. Mrs Noia ha un senso ma siccome non è bellissimo, eviterei di spiegarlo. Come dico nel testo, “in un mondo a colori non esiste più”».
Come riesce a tenere a bada il suo Joker?
«Il disegno del Joker è nei miei ricordi fin dalla culla perché mio nonno mi regalò un quadro dipinto da lui che raffigurava un arlecchino fatto a puzzle con il legno. Quando sono entrato nella casa discografica e ho visto le foto di artisti già noti ho subito pensato: “se devo fare una cosa del genere voglio una foto con la faccia da Joker”. Poi certo, c’era in gioco il mio alter ego, e ogni tanto grida forte».
Il suo giorno perfetto.
«Mai avuto un giorno perfetto. Anzi no, me lo sono ricordato l’altro giorno: anni fa, mi sono ritrovato a sciare di notte e sciavo così bene che i miei amici mi hanno fatto la ola».
L’ultima volta che ha esagerato.
«Adesso».
Uno dei suoi mentori è Lucio Dalla a cui ha dedicato “Finché ti dimentico”. Io riscontro una nostalgia di Dalla anche in “Una preghiera moderna”, a parte la citazione esplicita di Anna e Marco.
«Dalla è stato uno dei pochi amici veri che ho avuto in questo ambiente. Con lui non mi sono mai sentito in difetto, non c’è stata mai rivalità ma, anzi, comprensione da parte sua. Quando ci hanno presentati perché dovevo prendere parte a un suo programma, sembrava intimorito, ricordo che si era nascosto dietro una poltrona finché non ho aperto bocca. Mi ha insegnato la bellezza di condividere. Io, sentimentalmente parlando, sono cresciuto in maniera dura. Lucio mi ha lasciato la speranza».
In molti brani ci sono evidenti richiami alla letteratura, da Cal­vino a King, persino alla mitologia classica con il mito di Orfeo e Euridice (“Chi si volta è perso”). Quali sono i suoi riferimenti letterari?
«Io i libri li leggo ma li visito anche. Ci sono momenti in cui leggere mi fa male perché mi sento troppo coinvolto, magari perché sto scrivendo qualcosa di particolare. Ciononostante, sono affascinato dai libri, ne leg­go molti, ne ho letti molti. Sono stato molto influenzato da certe traduzioni. Per esempio, delle opere di Edgar Allan Poe, americano, che trasmettono colori e immagini forti. Ho letto molto Calvino e Kafka, e della scrittura osservo an­che le immagini. Amo la pittura, la poesia. Mo­di­gliani, Picasso, Van Gogh mi hanno ispirato e mi ispirano tutt’ora. E poi c’è un libro di Baudelaire che ho comprato all’estero in un mercatino, lo porto sempre con me, è il mio portafortuna».
Nessuno le ha mai detto che il logo con le due G evoca tutt’altro che due G?
«No, adesso che ci penso non me l’ha mai detto nessuno».
Da 1 a 10 quanta voglia ha di tornare sul palco?
«Tredici virgola tre periodico».

A cura di Alessandra Bernocco

BaNNER
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