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«Sono un finto duro. Pavese e il vino mi trasportano»

L’attore Vinicio Marchioni porta in scena uno spettacolo che celebra l’enologia. Vincitore del “Gassman” con un personaggio positivo: «In Italia ce ne sono tanti»

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Intervistare Vinicio Mar­­chio­ni è un po’ co­me chiacchierare attorno a una tavola, magari sorseggiando un buon bicchiere di rosso. Non solo perché è proprio di vino che abbiamo incominciato a parlare, ma per la sua naturale disponibilità a scivolare con garbo da un argomento all’altro, senza metterti fretta.
Il cinema e la televisione, il teatro dei registi maestri, i social, i figli, il cibo e il vino, appunto, a cui è dedicato “In vino veritas”, il suo prossimo lavoro, che sarà presentato come mise en éspace a cura di Milena Mancini sabato 2 lu­glio, nella suggestiva cornice di Villa Torlonia, a Frascati. Lo spettacolo fa parte della prima edizione di “Appia nel mito”, rassegna diretta da Alessandro Machia e Fabrizio Federici, distribuita tra Roma e il più celebre comune dei Castelli, pensata sul filo della dirompente contemporaneità del mito classico.
Vinicio, da cosa nasce “In vino veritas”?
«Dalla mia passione per il vino inteso come convivialità e ac­coglienza, con tutto il patrimonio culturale e letterario che porta con sé nei secoli. Lo spettacolo è un excursus at­tra­verso la letteratura dedicata, Omero e l’Odissea, Dio­niso, Ulisse, il Ciclope fino ad arrivare ad Alda Me­rini, passando per Bau­delaire, Bu­kowski, Eduardo, lo stesso Proietti».
Come ha costruito la drammaturgia?
«Partendo dal ricordo di mio nonno. Una sorta di Caronte traghettatore, perché è lui ad avermi iniziato al vino. La dram­maturgia alterna letteratura e biografia, cercando di declinare il pensiero alto in modo popolare».
Una cosa in particolare che le diceva suo nonno?
«Se l’acqua fosse buona non la darebbero gratis alle fontane…».
Un inno al vino come questo merita una tournée nelle Langhe. La si potrà vedere da queste parti?
«Spero proprio di sì. Abbiamo proposto lo spettacolo a vari consorzi vinicoli e ora siamo in attesa».
Qual è il suo rapporto con le Langhe?
«Meraviglioso. E non soltanto grazie al vino. Sei anni fa ho partecipato al Pavese Fe­sti­val, un incontro straordinario con quella terra, una grande emozione ritrovarmi lì, so­prattutto dopo averla conosciuta attraverso la sua ope­ra, che amo profondamente».
Il suo tributo si intitolava “Ritratto di un uomo” e prevedeva letture di brani tratti da “La luna e i falò” e “La­vorare stanca”. Il suo Pavese del cuore?
«Il Pavese dei ricordi, poeta e romanziere: ci sono bellissimi passaggi dedicati all’amore per la sua terra. Ma an­che quello dei “Dia­loghi con Leucò”».
Veniamo al cinema. Lei è spes­so associato a personaggi limite, piccoli e grandi de­linquenti, come per esempio il Freddo nella serie “Ro­manzo criminale”. In “Ghiac­­­­cio”, invece, il recentissimo film diretto da Fa­bri­zio Moro e Alessio De Leo­nardis, interpreta un buo­no. Com’è andata?
«Fabrizio è un grande raccontatore di storie, un comunicatore di emozioni forti. Io in­terpreto un ex pugile che allena una giovane promessa del­la boxe, un ragazzo che però si trova a scontare – con la malavita locale – una colpa commessa dal padre. Il film ora è disponibile sulle piattaforme streaming, ha avuto un bel consenso, ha ottenuto diverse candidature e vinto alcuni premi».
In particolare, lei ha vinto il premio “Vittorio Gassman” come miglior attore protagonista.
«Dopo tanti personaggi negativi, mi ha fatto molto piacere portare al cinema una delle tante belle e brave persone che si alzano la mattina sa­pendo di poter trasmettere ai propri figli dei principi sani. Il film è ambientato nella Roma degli anni Novanta ma di queste persone è piena l’Italia. Gente che cerca di resistere, malgrado tante difficoltà».
A proposito di rapporto genitori-figli, lei è padre di due ma­schi. Come si giudica?
«Questo bisognerebbe chiederlo a loro…».
Si risponde sempre così. Insisto.
«Sono un padre che cerca di mettere dentro al rapporto quanto più dialogo possibile, ma quando è no, è no. Loro sono i figli e io resto il padre e le spiegazioni del perché è no non sempre possono essere capite».
Il suo primo film, “Feisbum”, del 2009, è incentrato sul mondo di Facebook. Che rapporto ha oggi con i social?
«Un rapporto conflittuale: lo uso per comunicare cose di lavoro ma non ne faccio un uso privato. Penso che un attore debba essere conosciuto soltanto attraverso i ruoli che interpreta, attraverso la maschera. Siamo attori, non influencer. Io faticherei a star dietro a certe dinamiche do­pate dove la forma è più im­portante del contenuto. Co­munque credo anche che non sia giusto combattere contro il progresso e la contemporaneità. Bisogna dialogarci. “Fei­sbum”, poi, è stato il mio primo film, era la prima volta che mi trovavo davanti alla macchina da presa e non sapere nulla era una tortura».
Nel 2010 ha interpretato Au­reliano Amadei nel suo film autobiografico “20 sigarette”, da lui stesso diretto, che racconta dell’attentato del 12 novembre 2003 contro la base militare italiana di Nas­siriya, che lo aveva visto coin­volto. Certe immagini, fatti i debiti distinguo, sono terribilmente attuali.
«Infatti sono dinamiche che si ripetono anche se si parla di contesti completamente di­versi. Il film è sintomatico di un certo malessere italiano che si ripete negli anni. Una delle pagine più tragiche e scure del nostro Paese ma non isolata, con un prima e un dopo. Purtroppo».
Torniamo al teatro e, in particolare, al teatro di regia. Ha lavorato due volte con Luca Ronconi, un maestro indiscusso che ha forgiato generazioni di interpreti, un carattere difficile. Com’è stata la sua esperienza?
«Il teatro è il luogo da cui è scaturito il tipo di attore che sono. Quando penso al teatro penso alla casa. Ronconi è stato fondamentale, mi ha fornito gli strumenti per com­prendere cosa davvero significhi essere un interprete. L’imprinting l’ho ricevuto da lui».
Ora riprenderà “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee accanto a Sonia Berga­masco, diretto per la seconda volta da Antonio Latella. Uno spettacolo che ha debuttato a Napoli con successo e che quest’anno sarà anche al Nord…
«Con Latella avevo già fatto “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Wil­liams, dieci anni fa, ed era andato molto bene. Poi ci siamo rincorsi per un bel po’ senza riuscire a incontrarci di nuovo finché è arrivata questa occasione: per me ancora una volta un’esperienza straordinaria. Uno di quei testi che ti posizionano, una fortuna enorme. Come attore non posso chiedere di più».
Chiudiamo il cerchio tornando all’inizio, cioè al vino e quindi anche al cibo.
«Un binomio indissolubile. Io vengo da due famiglie contadine e sono cresciuto con il sugo che sobbolliva sui fornelli…».

a cura di Alessandra Bernocco
Foto: Jasmine Bertusi

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