«Il mio disco? È un film senza immagini»

Boosta, tastierista dei Subsonica, si considera prima di tutto un ascoltatore e un raccontatore

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“Booster” co­me sovralimentatore, come am­plificatore di suoni, ma anche, ironia di questi tempi, come dose di richiamo. In­somma un “booster” è una specie di rinforzo, come quella bretella con gruccia con cui si incollava sulle spalle la prima tastiera, per renderla portatile. Arriva da lì il suo nome di battaglia, Boosta, in versione nostrana.

Davide Dileo è il tastierista dei Subsonica, gruppo musicale fondato a Torino nel 1996 e composto da Samuel Romano (voce), Max Casacci (chitarra), Luca Vicini detto Vicio (basso), Enrico Matta detto Ninja (batteria). Una decina di album registrati in studio, video, riconoscimenti, premi, collaborazioni, partecipazioni a rassegne e festival, compreso Sanremo nel 2000 con “Tutti i miei sbagli” e poi lunghe tournée e a ogni giro un po’ di pubblico in più, tra fedelissimi e nuovi adepti. Dal primo tour fino a oggi, ovvero cinque lustri di vita, un quarto di secolo. E tra un album e l’altro, tra un concerto e un tour, la scrittura, la conduzione radiofonica e televisiva, il cinema indipendente.

Bilanci e progetti?
«Bilancio buono, progetti anche, ma al momento siamo in stand by, con un tour “sold out” che stiamo rimandando di giorno in giorno. A­spettiamo il via libera».

A parte la battuta dietro l’angolo, lo ha fatto il “booster”?
«Certo. Sono vaccinato e ho fatto vaccinare le mie figlie, di tredici e quattordici anni. Ho fiducia nelle istituzioni e sono favorevole al green pass. Facciamo parte della società civile e il concetto di responsabilità mi è molto chiaro, poi capisco l’eccezionalità di questo momento ma proprio per questo facciamo tutto il possibile per lasciarcelo alle spalle».

Nell’ambito di Mirabilia of Music, a Roma, ha tenuto un concerto all’Auditorium del Museo Nazionale degli Stru­menti Musicali presentato come Piccolo concerto di Na­tale per piano ed elettronica modulare suonato come ai primi del ’900. Come si suonava ai primi del ’900?
«Penso al minimalismo di quel periodo, alla musica un po’ malinconica che mi piace moltissimo. Ho suonato un pianoforte antico che è un po’ il sogno di ogni musicista. Sono affascinato dall’idea che su quei tasti siano passate chissà quante mani, chissà quante generazioni di pianisti, con i loro pensieri, le loro emozioni. Il mio è stato un piccolo concerto in stile pri­mo ’900 ma legato alla musica contemporanea. Una serata “flou” tra minimalismo e musica elettronica».

Parliamo del suo nuovo al­bum e primo strumentale, “Fa­­­cile”. Un suo affezionato estimatore ha detto: “ne sentivo il bisogno”.
«Per me fare musica è una ne­cessità e anch’io ne sentivo l’urgenza. “Facile” è un lavoro strumentale per pianoforte ed elettronica. L’ho definito una colonna sonora per il silenzio che ascolta. Un film senza immagini, nel quale ognuno è libero di usare le proprie. Penso che l’ascolto e il silenzio siano condizioni fondamentali, i contenitori senza i quali non sarebbe possibile inserire informazioni».

Lei si ritiene un buon ascoltatore?
«Mi piace di più ascoltare che parlare».

Eppure questa è un’epoca in cui il silenzio sembra proprio un’utopia.
«È vero che le persone cercano la distrazione, che è un tempo fatto di tante parole, ma proprio per questo ritrovare un po’ di silenzio sarebbe importante. E la musica può essere un buon accompagnamento al pensiero».

È nato e vissuto a Torino, città dell’“understatement” per eccellenza. Anche per questo continua a sceglierla?

«Non vivrei altrove. Torino rappresenta la mia dimensione naturale. Si dice che sia il primo grande paese e l’ultima grande città. Negli anni No­vanta è stata un avamposto, una finestra sull’Europa e nonostante il suo retaggio di città industriale c’era una grande circuitazione di eventi e forse proprio per questo stesso retaggio si ospitavano gruppi e concerti a basso budget che qui arrivavano prima. Non sarei l’artista che sono se non fossi vissuto a Torino».

Come compositore e autore ha scritto, tra l’altro, due bra­ni per Mina: “Non ti voglio più” e “La clessidra”. Un mito per più di una generazione.
«Sapevo che stava cercando nuovi brani per il nuovo album e gli ho proposto i miei. Mina è una persona intelligente e come tutte le persone intelligenti è curiosa. Non è ancorata alla tradizione, ma è attenta a quel che succede, a come la musica si può evolvere. E questo è un discorso che non ha età».

Chi sono i suoi maestri e i suoi punti di riferimento?

«Sono tantissimi. (E comincia a sciorinare una quantità di nomi anche strani tra i quali afferro i Beatles, Arvo Pärt, Erik Satie, August Jaeger che scopro essere un editore mu­sicale anglo-tedesco, im­mor­talato nelle Variazioni Eni­gma di Edward Elgar, compositore inglese che magari qualcuno di voi conoscerà ndr). E come riferimenti di pensiero Giancarlo Caselli, Don Ciotti, che tra l’altro ha battezzato la mia figlia più grande e sa che sono sempre a disposizione di Libera».

Veniamo alla sua attività di scrittore e all’incontro con “Einaudi Stile Libero” con cui dieci anni fa ha pubblicato “Un buon posto per morire”, scritto a quattro mani con Tullio Avoledo. Un libro che lei ha definito “un romanzo storico sulla fine del mondo”.
«Per me ha rappresentato la possibilità di scrivere un libro con Tullio, che è anche uno dei miei scrittori di riferimento. Avevo amato tantissimo “L’elenco telefonico di Atlan­ti­de” e poi siamo diventati a­mici. Il libro insieme è stato un viaggio fantastico».

Cosa rappresenta la scrittura senza la musica?
«La possibilità di giocare con linguaggi diversi. Per me si tratta di raccogliere quello che vedo, di restituire determinate sollecitazioni in forma di racconto».

Tra tutte le sue esperienze c’è anche la conduzione radiofonica. Quanto aiuta la radio per farsi conoscere, per ampliare il target di pubblico?
«Io ho smesso di fare la lotta con gli strilloni. Faccio quello che riesco e il pubblico arriva da solo. Non sono mai stato molto propenso a farmi pubblicità».

L’ultimo film che ha visto?

«Segnalo una miniserie te­le­visiva: “The Beat­les: Get Back”, mol­to affascinante».

Come se la passa, secondo lei, il cinema italiano?
«Abbastanza bene. Mi piacerebbe mantenesse viva la ca­pacità di raccontare storie e la buona qualità di sceneggiatura che ora dimostra. Ma il mio desiderio è che la parte musicale sia sempre più curata. La musica è un linguaggio fondamentale e a volte, purtroppo, è ancora l’ultima voce di budget. Invece un grande film merita una grande colonna sonora».

Ho letto che insegna tastiere elettroniche al conservatorio di Como. Com’è come insegnante?
«Pessimo. Ho insegnato un anno soltanto. Però sono un raccontatore e posso essere un buon fratello maggiore».