Canale: torna la festa di San Nicolao, patrono delle Rocche del Roero

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Tornerà domenica 5 dicembre, a Canale, il rituale della festa di San Nicolao: un evento voluto e promosso dall’associazione Canale Ecologia, per onorare il nume protettore dell’Oasi naturalistica che porta il suo nome, nelle rocche poste all’intersezione tra i territori della capitale del pesco, di Montà e di Cisterna d’Asti.

Si tratterà di una tradizione in piena continuità con quanto accade da anni: con ritrovo previsto per le 14,15 sullo spiazzo di Casa Natura, facilmente raggiungibile imboccando la strada provinciale tra Canale e Cisterna, e facendo deviazione segnalata circa 100 metri prima dell’ingresso nel centro del piccolo paese astigiano. Alle 14.30 partirà la camminata ecologica alla volta del pilone votivo, con benedizione secondo il rito cattolico e ortodosso, canti e un momento conviviale finale con dolcetti e vin brulé. Data la situazione corrente, gli organizzatori hanno previsto precauzionalmente l’obbligo di mascherina anche all’aperto in caso di assembramento. Sarà come fare un nuovo, ideale nodo al fazzoletto, nella memoria storica -recente e meno recente- di Canale e del Roero.

E sì che questo evento trova le sue radici in quella piccola pazzia d’altri tempi, nata dal nulla in un sabato estivo di qualche anno fa. Era un tempo non troppo remoto, tutto sommato: il 2008, quando l’amico Gino Scarsi chiamò canalesi e roerini a raccolta, per trasportare una grossa pietra franata a valle di “quel” biotopo nella Valle delle Rocche, donato alla fine degli Anni ’80 dagli amici “gemelli” tedeschi di Sersheim. Risposero parecchi all’appello: volontari di Canale Ecologia, le Guardie Ecologiche (e penso a chi, tra loro, ha lasciato troppo presto questo mondo) ma anche semplici amanti della vita all’aria aperta, uomini e donne, giovani, e pure bambini e ragazzi. Ognuno con il proprio ruolo, in questa fatica macistico-canalese: senza curarsi troppo di essere di una parte o degli “altri”, in una cittadina che forse un giorno saprà superare certe fesse divisioni (le nuove generazioni ci stanno provando: ok, chiusa parentesi).

Quella pietra di rocca era un qualcosa di maledettamente “mal masenta”, scomoda: ferma com’era da secoli di incastro nelle pareti che un tempo lontano facevano rima con “mare”, proprio qui, all’inizio della platea astigiana. Ma noi non c’eravamo, parafrasando una canzone di Guccini. Pareva non volesse saperne di muoversi ancora dopo quel volo di decine e decine di metri, stanca, ignara del suo prossimo destino. Una ferma bestia da domare, un gatto di roccia che frana (ma che non fria: Aldo, Giovanni e Giacomo docet) e temeva nel farsi accarezzare da corde, baròt e pali.

Si riuscì a imbragarla, infine: e a portarla attraverso stretti sentieri nervosi come un elettrocardiogramma di una natura da infarto, tanta è la sua bellezza. Sudore e sforzo, pause e soste dettate un po’ dal bisogno di riprendere fiato. Tappe obbligate in cui fermarsi: un po’ per i sentimenti di questa sorta di via crucis sfumata tra il profano del momento e il tocco di sacralità del futuro che attendeva questo masso. E un po’ anche per le battute e le gavade di Claudio Pasquero, orefice ma anche instancabile camminatore: gente che, per me, mette di buon umore solo a sentire il tono della sua voce.
Soste e briefing volanti, e magari anche timore di affondare in quel cavalcone sul limo che lascia il rio delle Rocche, sale e sangue di equiseti che erano già qui in tempi in cui i velociraptor andavano forte come Ducati Testastretta. O quasi.

Arrivammo infine al lago, per caricare la pietra sulla fresa e salutarci con una merenda sinoira veloce: ma erano epoche in cui questo rito si chiamava ancora così, prima di mutare in apericena secondo la lezione di metropoliti ignari di boschi, rocche e pure di Canale.
So solo che, la sera stessa, andai ad una festa di paese, a San Vito di Montà: e, nel gioco delle macchinate, restai a piedi in quel domino del “credevo fossi con loro” che si chiude a spirale. Credo che sia capitato un po’ a tutti, prima o poi.

E il pietrone? Nessuno ne parlò più, almeno per qualche tempo: c’era da attendere e da far sudare ancora, a colpi di scalpello, ancora per mano di Gino, affinché il sasso potesse cambiare le proprie consonanti -martellate di arte e di parole- e diventare “santo”.
San Nicolao, per la precisione: proprio come il pilone che offre il nome all’Oasi di Natura nelle Rocche, e che la tradizione ne mescola i sensi al punto da farlo divenire Santa Claus.
Sì, proprio Babbo Natale: perché quella pietra fu un dono, anche se cercato come un ramo che può ferire. Infine, quel racconto in pietra fu pronto: e si trattò di riportarlo a casa, un anno e mezzo dopo, proprio in occasione della festa del Santo.

Ci fu chi rispose ancora una volta “presente”: a forza di braccia e di birocciate a cavallo, di palanchini e di fango, ché era ormai un umido dicembre. Un giorno ecumenico: dal momento che vi partecipò anche un discreto numero di componenti della comunità ortodossa, che condivide il culto di San Nicolao nel proprio calendario, e volle essere partecipe del tutto.

Con le braccia, e pure con la preghiera: e con la benedizione di un brillante pope oltre che di un giovanissimo don Mauro, all’epoca “curato” nella parrocchia di Canale.
Pensiero personale: ho ricordi di gente vestita da lavoro frammista ad altri con il paltò dei giorni di festa: tutti, infine, infangati ma felici di aver preso parte a quel giorno.
C’è ancora un video in circolazione, su qualche hard disk perlomeno: per fortuna e per destino, giacché la spia della memoria del cervello -ogni tanto- suggerisce che occorrerebbe liberare spazio. Ma è difficile, impossibile, liberarsi di certi files di ricordi collettivi.

Paolo Destefanis