«Democrazia in crisi il sistema attuale non funziona più»

Mattia Feltri: «Il modello rappresentativo mostra limiti» Parla il direttore dell’HuffPost ed editorialista per La Stampa: «Ma non sono favorevole all’idea democratica “diretta” teorizzata da Casaleggio. Serve una riflessione urgente. Il Parlamento ha ormai solo una funzione notarile. Vi spiego perché amo il Toro e le tante eccellenze del Piemonte»

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Mattia Feltri, in un recente “Buon­gior­no” ha scrit­­to del bal­co­ne di Di Maio (da cui annunciò la fine della povertà) per rappresentare la deriva del sistema democratico. Metafora delle pro­messe im­pos­sibili da mantenere?
«Tutto dipende dalla lunghissima crisi della democrazia rappresentativa, ancora senza soluzione, una crisi insita nella de­mocrazia stessa. I rischi li ave­va intravisti già Tocqueville, moltissimi anni fa. Durante il suo viaggio negli Stati Uniti, elogiava la prima vera grande de­mocrazia occidentale dicendo che là tutti avevano la possibilità di desiderare il meglio. Con le monarchie europee, si dipendeva dai capricci del regnante. Con la democrazia, invece, tutti hanno diritto di partecipare e desiderare. Il problema è quanto poterlo fare senza mettere a rischio la democrazia stessa che, dice sempre Tocqueville, funziona se si è in grado di capire fin dove possa arrivare il desiderio di ognuno».

Stiamo andando oltre quel limite?
«Decisamente, tanto che chiamiamo diritti anche quelle che sono pretese. Tutti hanno aspettative enormi verso la democrazia che, essendo una gara, spinge i suoi rappresentanti o gli aspiranti tali a promettere sempre un po’ di più. Anche ciò che non possono mantenere. E ingenerano frustrazione e insoddisfazione: il famoso cane che si morde la coda».

Quindi si cercano soluzioni alternative?
«Ecco spiegata l’attrattiva che larghe fasce della popolazione han­no per la Cina, per Putin o Orban, dittatori o autocrati: accade perché questo vuoto spaventa, disorienta, si cerca l’uomo forte. Il “balcone” però non era un riferimento a Mussolini ma a qualcuno che ti dice “abracadabra” da lassù».

Oggi l’accesso alle informazioni è globale, ci sono opinioni più diffuse. Non è un bene?
«Li chiamavamo discorsi da bar, sono diventati discorsi pubblici che oltretutto si sommano attraverso tanti profili, si alimentano e creano opinione pubblica. Questi nuovi strumenti prima o poi, siamo già in ritardo, dovranno imporre una riflessione sullo stato della democrazia rappresentativa. Non sono per la democrazia diretta di Casaleggio, la considero una sciagura, tra l’altro il suo riferimento a Rousseau era sbagliato. Il filosofo diceva che, per deliberare così, il diritto di voto dovrebbe essere scevro da passioni. Noi siamo tutto, meno che privi di passioni. Uno vale uno se ognuno pen­sa al bene dell’altro. Improbabile. La democrazia rappresentativa non sta funzionando: il Parlamento non legifera, tutta questa decretazione d’urgenza era precedente al Covid. Al Parlamento è rimasta una funzione notarile. Come abbiamo visto per il Ddl Zan, c’è stata solo una manifestazione d’identità e non un tentativo di sintesi. Tutta l’attività dei parlamentari si svolge sui media, social o tradizionali. Magari troveremo una soluzione, però così le cose stanno funzionando molto male».

Da dove può ripartire la politica, riavvicinandosi ai cittadini?

«No, la politica deve amministrare e conoscere i problemi per risolverli. Noi abbiamo politici che quando vanno in piazza, prendono le istanze delle persone per trasformarle in azione o, comunque, in un discorso politico. Dovrebbe essere l’opposto: io politico ho idea di quali strumenti debba usare, li propongo agli elettori e, su questa base, loro mi votano. Non che io mi adeguo alle richieste degli elettori. Perché se cambi la tua idea in base alle preferenze, non sei un politico ma un imbonitore. In­vece vediamo leader che propongono cioccolato e, se alla gente non piace, vendono fragole. Non è politica».

Qualcuno avrà pensato che poteva salvarci Fedez, prima che il rapper svelasse il bluff.
«Ma siamo così sicuri che Fedez sia così distante dai politici? Ci sono davvero grandi differenze con le competenze di un Fico o di un Salvini? Non mi sarei certo scandalizzato se Fedez fosse entrato in politica; mi stupiva lo stupore».

Il movimento definito “No pass” darà vita a una forza politica?

«Fa parte di ciò che abbiamo detto: il Covid ha fatto da detonatore di vizi e virtù, sappiamo che una larga parte della popolazione non crede più alle élite, culturali e politiche. Il fatto che nel 2018 il Movimento 5 Stelle fosse al Governo con la Lega doveva già essere stupefacente, non ci si può stupire ora per quel 15% che non si vaccina perché crede che il Covid sia la prosecuzione della guerra tra élite di cui fanno parte anche gli scienziati. Se nascerà un partito, magari avrà un discreto riscontro elettorale. Ma dovrà confrontarsi con questioni di governo, non solo coronavirus e mascherine».

Ci racconta come nasce la sua passione per il Toro?
«Perché sono nato nel 1969 e ho cominciato a seguire il calcio ver­so i 7-8 anni. Ricordo la stagione 1976-’77, avevo visto un tempo di una partita su Rai Due, un Torino-Sampdoria 2-0 con gol di Pulici e Graziani. Era tutto talmente perfetto che non so se ho sublimato il ricordo o se sia accaduto davvero. Cominciai ad ama­re quel Torino per la maglia, per i “gemelli del gol” che da bimbo ero con­vinto che lo fossero anche nel­la realtà. Poi, la vita è strana: in quel campionato il Toro fece 50 punti e la Juve 51, avrebbe vinto tutti gli altri campionati a 16 squadre tranne quello. Per me fu una tragedia, invece sarebbe stato il più bel campionato del Torino, mai più così vicino allo Scudetto. La giornata più brutta era in realtà la più bella. Ora mi accontento».

E il suo legame con il Piemonte?
«Sono stato l’ultima volta nelle Langhe per uno “speach”, ospite di Oscar Farinetti e della Fon­da­zione Mirafiore, furono un pomeriggio e una serata bellissimi per l’accoglienza. Sono quasi contento di non vivere in Piemonte perché lì mi conoscono più che nel Lazio, per la mia collaborazione con La Stampa, e questo può spingermi ad avere un’opinione di me superiore a quella che merito. Inoltre ritengo la cucina piemontese, assieme a quella dell’Emilia-Romagna, la migliore d’Italia. Al­tre cucine sono sopravvalutate, quella piemontese è conosciuta ma per la nota ritrosia degli abitanti non apprezzata per ciò che vale: tantissimo. Sono anche bevitore di vini rossi e, ancora, i rossi piemontesi sono quelli che preferisco assieme ai vini dell’Alto Adi­ge. Del Barolo sappiamo tutti, ma amo molto il Barbera di Alba. Insomma, è una terra magica, oltre che di grandi scrittori che tutti abbiamo amato».