«Non omologhiamoci noi siamo “infinito”»

In concerto a Cuneo e Cortemilia, il compositore Giovanni Allevi si è raccontato alla Rivista IDEA

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Cresce l’attesa in provincia di Cuneo per l’arrivo del compositore Giovanni Alle­vi, che questa sera, giovedì 29 luglio, si esibirà a Cuneo e il 29 agosto a Cortemilia. Lo abbiamo intervistato.

Maestro, ricorda il primo in­contro con il pianoforte?

«Avevo cinque anni. I miei genitori, entrambi insegnanti di musica, pensarono bene di chiudere a chiave il pianoforte che era a casa per evitare che io mi avvicinassi. Lo fecero per proteggermi dalla vita di incertezze che la più impalpabile delle arti può riservare. Ma si sa, vietare qualcosa a un bambino significa scatenare in lui un irresistibile desiderio…».

Così lei iniziò a cercare la chiave dappertutto… È così?
«Sì e un bel giorno la trovai: era in una scatolina gialla. La mia emozione fu travolgente. Per giorni mi limitai a guardare la tastiera, con la paura folle di essere scoperto. Poi abbassai un tasto, un solo tasto, e una nota mi avvolse come fosse una sinfonia intera».

Per quanto tempo riuscì a cu­stodire questo “segreto”?
«Animato da paura e de­si­de­rio, suonai il pianoforte di nascosto, quando a casa non c’era nessuno, fino all’età di dieci anni… Poi mi scoprirono! E allora intrapresi lo studio accademico».

Con la musica classica, quindi, fu colpo di fulmine…
«Mio padre era un professore di Clarinetto con una autentica venerazione per Wagner; mia madre una cantante lirica specialista del repertorio di Monte­verdi e della musica antica. A casa non esisteva altra musica se non quella classica, sinfonica e lirica. Io passavo ore al giorno ad ascoltare i vinili di mio padre e a 15 anni conoscevo a memoria tutti i più importanti concerti per pianoforte e orchestra della storia, le sinfonie di Rossini, i poemi sinfonici di Richard Strauss, e la “Turandot” di Puc­cini, nota per nota. La mia gioia più grande era accovacciarmi su una poltrona e far partire nella testa il “n.3” di Rachma­ninov o il “5” di Prokofiev».

Cos’era per lei la musica?
«Viaggio mentale, complessità, tempi lunghi, ascolto impegnativo, sogno ad occhi aperti».

Ma ciò non veniva compreso dai suoi compagni di scuola…
«Era impossibile trovare una condivisione con i compagni e la musica che ascoltavano. Quan­do entri con la mente e il cuore nel “Preludio dal Tristano e Isotta” di Wagner, tutto il resto appare terribilmente noioso e prevedibile. A complicare le co­se c’era la mia timidezza…».

Le va di parlarne?

«Ero incapace di stabilire relazioni sociali; il totale senso di inadeguatezza mi pervadeva. Iniziai a essere bullizzato. Gli anni del liceo sono stati forse i più bui della mia vita. Appena finito l’esa­me di maturità, nel 1988, i miei compagni andarono in va­canza a Ibiza. Io invece passai tutta l’estate a studiare 11 ore al giorno il pianoforte per preparare l’esame di Ottavo. Ricordo ancora l’asciugamano viola so­pra lo sgabello per assorbire il su­dore…».

Dopo il diploma in Pianoforte, studiò Composizione per 10 anni fino al diploma al Con­ser­va­torio Verdi di Milano. In parallelo, si laureò in Filo­sofia. Che ricordi ha?
«Ero in appartamento con altri quattro ragazzi, uno più fuori di testa dell’altro. Ci sentivamo come membri della “setta dei poeti estinti” dell’“Attimo fuggente”».

Cosa combinavate?
«Discussioni di filosofia fino al­l’alba, feste, qualche birra di troppo, tanto studio, poesie de­clamate in piedi sul tavolo: finalmente un po’ di spensieratezza. Quando invece, dopo la laurea, mi trasferii a Milano per concludere gli studi di Com­posizione, piombai di nuovo in una voluta solitudine, quasi patologica. Ho vissuto an­ni nell’indigenza e nella trasandatezza, chiuso in un monolocale traboccante di disordine, libri di filosofia e partiture musicali. Riuscivo a pagare l’affitto a malapena facendo il cameriere nei catering. In realtà stavo progettando la mia rivoluzione nella musica colta e avevo bisogno di stare rintanato, lontano dal mon­do, come un gatto sotto la credenza».

Insegnò anche educazione mu­sicale nelle scuole…
«Nel periodo milanese, ottenni una supplenza in una scuola media dell’hinterland. Per quei ragazzi la musica era considerata meno che la ricreazione: era difficilissimo interessarli e mantenere la classe. Allora inventai un me­todo di apprendimento più di­vertente: yoga, respirazione diaframmatica collettiva, tanto disegno, partiture informali, improvvisazione, prove di direzione di coro, sperimentazione vocale, gesto nota e strumentario Orff. All’apparenza sem­brava un’esperienza folle, ma c’era una base scientifica, anche se il preside non l’aveva capito. Ero un precario e mi ri­trovai di nuovo sen­za lavoro».

Cosa fece, allora?

«Il pianoforte mi attendeva co­me un destino ineluttabile. An­dai allora a New York in cerca di fortuna…».

E la trovò?

«Con lo zainetto pieno di cd e curricula percorsi Manhattan in lungo e in largo bussando ai luoghi sacri della musica per avere un’audizione. Feci la più grande collezione di porte sbattute in faccia della mia vita, tranne una. Chiamando da una cabina telefonica che era sotto casa, ad Harlem, mi procurai un’audizione al leggendario Blue Note Ny, il tempio mondiale del jazz. Ot­tenni di fare il concerto di debutto nella “Grande Mela” il 6 marzo 2005, esibizione che mi regalò un “inspiegabile” doppio sold-out».

Le cambiò la vita?
«Sì. Per qualche anno feci concerti solo negli Usa e in Oriente, poi in Italia si accorsero di me. Il mio primo tour toccava queste città: Hong Kong, New York, Shanghai, Peschici e Cerisano!».

È così ha iniziato la sua rivoluzione… Ce la descriva.

«Sono cresciuto nell’alveo della tradizione della musica classica, ne amo alla follia i capolavori, li ho studiati a fondo, credo di averli compresi: sono irraggiungibili. Ma la Filosofia di Hegel mi pone davanti un dilemma spaventoso. Qualunque forma d’arte deve evolversi per essere una verace espressione dello spirito del tempo».

Cosa significa per la musica?
«La musica colta deve tornare a rac­contare il presente e non un’epoca di due secoli fa. Come? Componendo nuove sinfonie e concerti, che abbiano la stessa complessità formale dei capolavori del passato, ma la ritmica di oggi. Musica classica nelle for­me e contemporanea nei contenuti, ovvero musica classica contemporanea. Ecco la pietra dello scandalo, interpretata dal mon­do accademico come un peccato di lesa maestà nei confronti dei grandi del passato».

È una teoria applicabile an­che alla società moderna?
«La pandemia, nonostante la dram­maticità che molte famiglie hanno vissuto, ci ha scosso nel profondo, facendo cadere tutto ciò che è inessenziale e superfluo. Cosa resta? Il coraggio dei medici e degli infermieri, l’importanza della ricerca scientifica, dello studio, del sacrificio. È finalmente chiaro a ogni livello che è necessario in­novare, rivoluzionare, riversare nel mondo le nostre idee più folli, inconsuete e splendenti. È l’anno zero per iniziare a costruire un mondo più bello, meno com­petitivo, più femminile e so­lidale».

Quale sarà il ruolo del talento?

«Dobbiamo liberarci dell’idea malsana del talento con cui alcuni talent televisivi hanno avvelenato la nostra anima. Il talento è la nostra unicità e non ha niente a che vedere con le dinamiche competitive basate sul confronto. Scoprire il nostro talento si­gnifica trovare la nostra unicità, la nostra irripetibilità. Ma è davvero difficile, perché la società conformista sta vivendo il suo massimo splendore e tutti siamo premiati se ci adeguiamo a stereotipi piatti e banali di successo numerico e di bellezza, che non corrispondono alla realtà. Ognu­no di noi è un mistero insondabile, è infinito!».

Nel suo nuovo singolo “Kiss me again” la musica aiuta due innamorati a riavvicinarsi. Ac­ca­drà an­che dopo la pandemia?

«Le note di “Kiss me again” v­o­gliono raccontare un risveglio, un allargamento dell’anima, un ritorno degli abbracci e dei baci. Non so se tutto questo sarà possibile nell’immediato futuro, ma quanta gioia si nasconde dietro quelle gomitate imbarazzate o negli occhi che brillano sopra le mascherine? Torneremo a guardare il mondo con lo sguardo in­cantato di un bambino, riscopriremo il valore di piccoli gesti che prima erano abitudinari, mentre ora non sono permessi».

Il Monviso di Cuneo e le nocciole di Cortemilia le saranno di ispirazione?
«Basta scorrere le date del mio tour estivo per restare colpiti da un fatto. Tranne il primo evento, che è stato al Kkl di Lucerna, un tempio della musica classica internazionale, la tournée si sviluppa in tanti piccoli e magici borghi, tra castelli, giardini in­cantati, panorami mozzafiato. Vado a cercarmi la vera bellezza, che è spesso nascosta, perché di que­­sto ho bisogno adesso. Aspettatemi!».