«Dobbiamo preoccuparci anche di ciò che accade negli altri paesi»

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Era uno dei punti centrali del dibattito pubblico agli albori della campagna vaccinale. Poi, mano a mano che il numero di somministrazioni è cresciuto, la discussione sui brevetti dei vaccini sembra essere finita in un cono d’ombra. Capire però chi abbia il diritto di produrre e met­tere in commercio gli antidoti ai virus (fino ad ora sviluppati da aziende private) non è questione di poco con­to, soprattutto se pensiamo che, come ormai appare chiaro, la risposta alla pandemia debba essere globale e che difficilmente un singolo Paese o, addirittura, un’area del mondo, possa uscirne da sola. In soldoni, dobbiamo preoccuparci non solo di noi, ma an­che di quello che succede, per esempio, in Africa o in America La­tina. Il dottor Pre­gliasco su questo tema ci spinge però a una riflessione in più. Se è vero che «c’è stato soprattutto al­l’inizio un certo “so­vranismo na­zio­nale” in cui ognu­no cercava di fare da sé, non dobbiamo dimenticare che la questione dei brevetti, per quanto im­portante, è simbolica. Pensiamo a una ricetta di una torta: non è detto che se io possiedo le istruzioni poi il dolce uscirà buono. Fuor di metafora, oltre alle regole per sviluppare un vaccino ci vogliono apparecchiature, materiali e tecnici di altissimo livello, che non si trovano in tutti i paesi». Insomma, non si può pensare di fare a meno delle aziende e affidare lo sviluppo agli Stati o agli enti internazionali? «Mi sembra chiaro che se oggi ab­biamo i vaccini lo si deve a una vittoria della ri­cerca capitalistica e al mondo delle aziende private, il cui ruolo decisivo è stato riconosciuto da tutti, anche da chi, a parole, raccontava cose di­verse. Pen­siamo agli Usa di Trump, che si è mostrato sicuramente cinico per molti aspetti, ma che poi ha stanziato finanziamenti ingenti per la ricerca. Al di là del singolo caso, ritengo che non si possa pensare di tarpare le ali alle aziende da un punto di vista economico anche se, va detto, Oxford, per citarne una, ha scelto volontariamente di vendere senza margini. Deve però esserci un ritorno che spinga i gruppi privati a fare ricerca. Certo, è altrettanto giusta la ri­chiesta di un’etica di fondo su queste questioni, così come il perseguire il principio che nessuno ven­ga lasciato indietro: ma è purtroppo fisiologico che in un’economia di guerra, co­me quella che si è configurata, ci sia chi si arricchisce e chi, invece, patisce in maniera di gran lunga maggiore».