«Mettiamo gli ultimi al primo posto»

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“Non so se mi sono spiegato”. Nel cor­so dell’intervista, Gio­vanni Paolo Ra­monda ha utilizzato quest’espressione decine di volte, quasi a mo’ di intercalare. Po­trebbe sembrare un dettaglio insignificante, ma in realtà l’impressione è che dietro ci sia qualcosa d’altro. È da escludere che il presidente e responsabile generale della Comunità Papa Gio­vanni XXIII tema di non sapersi esprimere correttamente, abituato com’è a relazionarsi con capi di Governo e alti prelati. Per cui questa costante ricerca di “feedback” da parte dell’interlocutore si spiega in altro modo, chiamando in causa un marcato senso di responsabilità. Gio­vanni Paolo Ramonda sente la responsabilità di farsi capire e si fa carico non solo di quello che dice, ma anche di come viene detto e recepito. Un modo di intendere il rapporto con l’altro che non si esaurisce solo a livello comunicativo, ma si riverbera anche nella sua quotidianità e nella gestione della Comunità che il fossanese, oggi residente nella Casa Famiglia di Sant’Albano Stura, guida dal 2007, anno di morte del fondatore, don Oreste Benzi.

Presidente, la Comunità Papa Giovanni XXIII è una realtà viva e attiva, molto presente nella nostra Provincia. C’è un po’ del suo zampino in questo radicamento nel nostro territorio?
«Don Oreste Benzi era un sacerdote romagnolo, che operava nella sua terra. L’ho incontrato nel 1980, quando scelsi di fare il servizio civile in una casa famiglia della Papa Giovanni a Rimini. Non conoscevo molto il mondo dei disabili, ma sentivo il bisogno di fare un’esperienza ispirata al Vangelo, concretamente vicina agli emarginati, con una valenza comunitaria e che potesse avere un impatto anche su altre vite, non solo sulla mia. Una volta rientrato, creai una casa famiglia a Sant’Albano insieme ad altri giovani e a Tiziana, che nel 1984 divenne mia moglie. Da allora viviamo lì, con tutti i nostri figliuoli (tre naturali e nove accolti, ndr) e nel frattempo la realtà della Papa Giovanni è cre­sciuta enormemente. Oggi siamo presenti in 45 paesi, in tutti i continenti».

È questa crescita a colpirla di più, se ripensa al percorso fatto da lei e dalla Comunità?
«Quel che mi colpisce di più è che migliaia di giovani continuino a scegliere questa modalità di vita, che ormai ha assunto tante sfaccettature: abbiamo iniziato con le case famiglia, ma ora abbiamo una presenza molto più variegata, con scuole in cui diamo priorità all’inserimento dei disabili, poliambulatori gratuiti, una rete di 15 cooperative sociali che impiega centinaia di persone, comunità terapeutiche, strutture di prima accoglienza per le persone senza fissa dimora e ragazze di strada, ecc. Ormai siamo radicati sul territorio, in costante cooperazione e dialogo con servizi sociali, tribunali e amministrazioni di ogni livello, abbiamo anche una presenza all’Onu, sia a Ginevra che a New York e nelle scorse settimane ho scritto una lettera al presidente del Consiglio Mario Draghi per chiedere l’istituzione di un Ministero della pace. Con tutte queste realtà cerchiamo di avere un approccio magari anche critico ma sempre co­struttivo, consapevoli che il bene comune non si costruisce demolendo, ma mettendoci la faccia, costruendo relazioni, facendo rete con le parti sane della società».

Le prospettive della Comunità sono rosee anche perché l’età me­dia dei volontari è piuttosto bas­sa…
«Sì, i membri che come me e mia moglie vivono nella comunità ventiquattro ore su ventiquattro hanno in media tra i quarantacinque e i cinquant’anni, ma i volontari sono decisamente più giovani. Siamo stati tra i promotori del servizio civile nazionale e internazionale, quando ancora non era previsto dalla legge e ogni anno abbiamo tra 300 e 400 giovani che vengono a fare esperienza in Comunità. La cosa più bella è che molti di loro restano, permettendole di crescere e rinnovarsi. L’altruismo occasionale è benedetto, come ogni forma di volontariato, ma esiste un altro tipo di solidarietà, quella che diventa oblatività, che si fa scelta di vita. Come sosteneva San Vincenzo de’ Paoli i poveri sono estremamente esigenti, scarnificano, e se non si vive al loro fianco per un motivo più alto non si riesce a reggere una simile esperienza».

Come si fa a succedere a una figura grande come quella di don Oreste Benzi?
«È una bella sfida! Diciamo che lui era un cavallo di razza, mentre io mi sento più simile a un mulo: uno che ha accolto sulle proprie spalle un carico e cerca ogni giorno di fare la sua parte. Vero è che su certi pendii a volte i muli arrivano dove dei purosangue non arriverebbero… E poi ho una rete di collaboratori eccellenti. Se ognuno di noi fa la propria parte cercando di far bene, tenendo presenti i principi che il nostro fondatore ci ha lasciato, ispirandosi al Vangelo, vivendo nella Chiesa e nella società, in collaborazione, si può ottenere molto. È quel che ho cercato di fare da quando ho raccolto il testimone di don Benzi, convinto che questo sia il tempo della comunità e della responsabilità, lavorando sodo e confidando nella Prov­videnza».

Relazionarsi tanto con “gli ultimi” quanto con personalità di rilievo non le crea mai una sorta di distorsione della realtà?

«Da fuori può sembrare strano, ma non è così. Quando incontriamo persone importanti, che hanno grandi responsabilità, lo facciamo sempre accompagnati dalle nostre “perle”, dai nostri ragazzi: Papa Francesco o il Presidente Mattarella, per esempio, sono stati molto colpiti dalle persone che accogliamo e ospitiamo. Quando vedono questa condivisione, questa solidarietà, capiscono immediatamente il senso di quel che facciamo».

Di fronte a un operato tanto vasto e a riconoscimenti così importanti non si corre il rischio di avvertire quasi un senso di onnipotenza? Penso al Vincenzo Muccioli della Comunità di San Patrignano raccontato nella recente docuserie “Sanpa”…

«Non ho visto la serie, ma penso che il segreto per non incorrere in errori come questo sia prestare sempre attenzione all’apertura: la comunità deve essere una realtà aperta, da cui tutti possono uscire e in cui tutti possono entrare a vedere. Occorre comprendere che il territorio in cui ti trovi non ti è ostile e che se innalzi barriere non ce la puoi fare».